Alle 11.10 del 20 aprile del 1999, Eric Harris e Dylan Klebold entrano, come tutte le mattine, nella scuola superiore di Columbine, vicino a Denver (Colorado).
Non è però una mattinata come tutte le altre, perché Eric e Dylan negli zaini non hanno libri e quaderni ma armi, tantissime armi. Un fucile a pompa calibro 12, un fucile semi-automatico 9 mm, una pistola semi-automatica calibro 9, un fucile a canne mozze calibro 12, esplosivo, caricatori e diversi coltelli da assalto.
Eric ha appena compiuto 18 anni, mentre Dylan è ancora minorenne.
Ciò che in qualsiasi altro luogo al mondo è impossibile ai più, negli Stati Uniti, invece, è concesso anche a un ragazzino: acquistare facilmente armi da fuoco, ovunque e a prezzi accessibili. Nello specifico, l’arsenale per la strage di Columbine fu comprato da un’amica dei due, Robyn Anderson, già maggiorenne all’epoca dei fatti e legatissima a Eric.
Quel che avvenne nell’edificio scolastico è risaputo: non una strage improvvisata, ma un blitz preparato, preordinato, studiato con perizia militare in tutti i particolari. Il 20 aprile del 1999, a Columbine, non fu un giorno come tutti gli altri: morirono dodici studenti e un insegnante, mentre altri 24 alunni furono gravemente feriti. Eric e Dylan si tolsero la vita quarantacinque minuti dopo l’irruzione nell’edificio, in un’esaltazione autodistruttiva che, nelle loro menti malate, rappresentava lo zenit del delirante proposito appena messo in atto.
Un’intera nazione, nel giro di poche ore, si trovò a piangere i propri figli e a porsi una semplice, quanto inquietante domanda: perché? La risposta per un europeo è quasi ovvia, e senza eccessivi approfondimenti sociologici, si può riassumere in un concetto semplicissimo: è inaccettabile una legge che consenta a chiunque di entrare in possesso di un’arma da fuoco esibendo il solo documento d’identità, figuriamoci poi se l’acquirente è un liceale che ha appena raggiunto la maggiore età. Negli Stati Uniti, però, non funziona così: quella che noi riteniamo una follia legalizzata, per buona parte del popolo americano è, invece, un diritto inalienabile garantito dalla Costituzione (l’articolo che sancisce il diritto a possedere armi è il Secondo Emendamento) in mancanza del quale un individuo non potrebbe mai essere considerato un cittadino a pieno titolo.
Così, invece di criticare una norma arcaica e decisamente pericolosa, parte dell’opinione pubblica dei tempi si scagliò prima contro la polizia, accusata di viltà per aver accerchiato il perimetro della scuola, entrando però nell’edificio solo dopo quattro ore; e poi, in subordine, se la prese con film, videogiochi e con alcune rockstars, tra cui Marylin Manson o i tedeschi Ramstein, colpevoli, a suo dire, di istigare i giovani alla violenza.
Questa, per sommi capi, è la morale americana in fatto di armi e, nonostante il problema si riproponga periodicamente con gravissimi fatti di sangue, non c’è verso di mutarla.
Lo sa bene Sheryl Crow, quando tre anni prima, nel 1996, scrive una bellissima canzone dal titolo Love Is A Good Thing che ascoltata alla luce dei fatti di Columbine, suona come un monito, un avvertimento, una dolorosa e inquietante previsione. Sheryl Crow non è certo una cantante politicizzata, non sta sulle barricate, non lotta per i diritti civili, ma preferisce scrivere di sentimenti e pene d’amore. Eppure, in Love Is A Good Thing, la bionda Sheryl prende inaspettatamente una posizione sulla materia delle armi e della loro facile reperibilità, anche nei supermercati americani.
Lo fa in modo garbato ma deciso, con un testo poetico e sincero, con frasi che parlano dell’amore e della musica come alternativa alla violenza (“ballate bambini, ballate a ritmo, voglio essere una hippie perché la vita è dolce “ e ancora “voglio fare rock’n’roll su e giù per le strade, ho un messaggio da dare, l’amore è una cosa buona“). Frasi carine, pulite, che riesumano concetti power flower, al netto, peraltro, di ogni implicazione lisergica.
In un verso, però, Sheryl Crow commette quello che per gli americani è considerato un peccato capitale, perché cita espressamente e senza mezzi termini la più grande catena di supermercati degli Stati Uniti, la Walmart, nei cui negozi si vendono pistole come fossero hamburger: “Guarda i nostri figli mentre si ammazzano a vicenda con pistole comprate al discount Walmart “. In questo verso che sotto il profilo della logica non fa una grinza, si propone però l’inaccettabile e scomoda associazione: armi = morte = Walmart. Due piccioni con una fava, insomma: Sheryl attacca la legislazione sulle armi e la prima multinazionale al mondo per fatturato, nonché consolidata istituzione commerciale per tutte le famiglie americane. Apriti cielo!
Soprattutto perché, nei supermercati Walmart, oltre alle pistole si vendono pure cd, tra cui quello di Sheryl Crow. Il colosso statunitense, quindi, prima chiese alla cantante di modificare il testo della canzone e poi, quando arrivò un netto rifiuto da parte dell’artista e della casa discografica, ritirò le copie del disco (si trattava del secondo album, intitolato semplicemente “Sheryl Crow”) da ben 2.200 punti vendita. Nonostante l’ostracismo della Walmart il disco vendette decisamente bene, anche se meno di quanto avrebbe potuto in assenza di censura. La triste rivincita di Sheryl Crow arrivò tre anni dopo, proprio con la strage di Columbine, quando quel verso risuonò nelle orecchie degli americani come un’inascoltata profezia di morte.
PS: per approfondimenti sugli eventi accaduti alla Columbine High School consigl iamo la visione di “Bowling For Columbine”, lungometraggio diretto da Michael Moore, che vinse l’Oscar nel 2003.