Frank Zappa lo ha citato come una delle proprie influenze e, nella prima band, i Blackouts, suonava una sua hit del ’54, Okie Dokie Stomp.
Stiamo parlando di Clarence Brown, soprannominato un po’ ironicamente “Gatemouth” da un insegnante delle superiori, che riteneva avesse una voce sin troppo profonda. L’artista americano, nato in Louisiana e cresciuto in Texas, non prese a male il nickname, ma anzi lo trasformò, come tutti i grandi sanno fare, in punto di forza, inserendolo in mezzo al nome, elemento caratterizzante della sua personalità.
Nato nel ’24, ebbe un maestro nel padre che a tempo perso gli insegnò la musica e lo spinse a suonare vari strumenti.
Infatti pur essendo famoso principalmente come chitarrista blues, era un portentoso violinista oltreché un buon batterista e sapeva districarsi in parecchi generi, dallo swing al cajun.
Inoltre la venatura country non è mai mancata nel suo repertorio, accentuata dall’abilità a creare magiche atmosfere con il “fiddle”.
Se gli anni ’50 e ’60 furono importanti per stabilizzarlo come professionista nel mondo della musica, le pubblicazioni più rilevanti avvennero a partire dal 1972 e trovò una calda accoglienza in Europa, ben propensa in quel periodo ad accogliere musicisti che celebrassero la tradizione dell’American Roots Music.
I suoi show fecero tappa persino in Unione Sovietica alla fine di quel decennio e l’attività live e discografica proseguirono senza intoppi, toccando l’apice negli eighties quando rivitalizzò la carriera negli Stati Uniti, vincendo un Grammy e sfiorando lo spaventoso numero di trecento concerti l’anno.
L’album di cui adesso andiamo a parlare è un altro momento memorabile, viene pubblicato nel 1996, un anno dopo che Clarence ha fatto conoscere la sua musica anche ai fan di Clapton, essendosi esibito come opening act durante il trionfale From The Cradle Tour del musicista britannico.
E proprio Eric Clapton è fra i tanti ospiti che partecipano a Long Way Home.
Infatti tocca a lui aprire le danze con la propria Blues Power, tratta dall’omonimo album (uscito nel 1970), scritta a quattro mani insieme a quel genio di Leon Russell, anch’egli presente nel pezzo alla voce ed electric piano.
Slowhand arricchisce con i caratteristici preziosi ricami pure una fenomenale Don’t Think Twice It’s All Right (uno dei tanti capolavori di Bob Dylan!) illuminata dai giri di basso del grande Willie Weeks – fra i suoi “datori di lavoro” Donny Hathaway, James Taylor e George Harrison- e la splendida title track che chiude l’opera, accompagnando il prode Gatemouth alla chitarra acustica, degna conclusione di un lavoro imperdibile.
E il resto? Tanta, ma tanta sostanza. Non capita tutti i giorni di avere, oltre al già menzionato Weeks, gente del calibro di Jim Keltner e Amos Garrett. Il primo, instancabile metronomo, definito The leading session drummer in America, lascia di stucco per la raffinatezza dei suoi tocchi, mentre il secondo è un maestro della chitarra ritmica ed è eccezionale nelle sue pennellate soprattutto in Dockside Boogie, in cui si nota anche un formidabile Ry Cooder al mandolino, e Mean and Evil, brani dove Brown suona magnificamente il violino. Il “padrone di casa” non finisce di stupire: è un dolce terremoto mentre si cimenta anche alla viola nella ballata country Here I Go Again scritta da Bobby Charles, special guest insieme a Maria Muldur come vocalist.
Rimangono da citare ancora quattro piccoli capolavori.
L’autografa Somebody Else non fa che riecheggiare la saggezza di queste parole che ho trovato scritte sul muro di un locale storico del genere a New York:” Al blues non si è mai chiesto di essere nuovo, ma di essere vero…è questo che lo fa suonare unico ogni volta...”
E proprio tale sincerità, questa formidabile purezza hanno reso Clarence Gatemouth Brown uno dei più grandi artisti in circolazione.
Tornando al pezzo sopra citato viviamo sette minuti di pura goduria, sembra di tornare agli albori della storia di un certo tipo di musica, ma nello stesso tempo un sound aggiornato ci catapulta nuovamente nell’odierno. Chapeau!
Lo strumentale The Blues Walk, cover dello storico brano di Clifford Brown, rappresenta la quintessenza dello stile chitarristico appartenente a Clarence, capace pure di dare un’atmosfera jazzy a una canzone, se necessario. In questo caso poi il risultato è davvero superlativo, complice una spolverata di fiati capitanata da quell’istrione di Bobby Campo alla tromba.
Esistono innumerevoli versioni dello standard Tobacco Road, ma non possiamo che rimanere piacevolmente meravigliati se qui nel disco troviamo a duettare con Gatemouth chi questa hit l’ha scritta.
Ecco quindi alla chitarra acustica e voce quella forza della natura che si chiama John D. Loudermilk: un altro momento indimenticabile.
Terminiamo le perle con una composizione di J.J. Cale. Il motivo per cui il musicista di Oklahoma city è uno degli autori più “coverizzati” è semplicissimo: ha sempre saputo scrivere delle bellissime canzoni, veri gioiellini senza tempo. Don’t Cry Sister beneficia del trionfale apporto del “Re della Slide”, Mr. Sonny Landreth.
La voce appena roca del buon Clarence dona un’atmosfera coi fiocchi a questa brillante interpretazione. Altro che ironizzarvici sopra, caro incauto insegnante!
La carriera di Brown sarà rivitalizzata anche psicologicamente dopo Long Way Home, grazie alla felicità di aver potuto collaborare con gli artisti che amava, oltre al fatto di avere un pubblico nuovamente interessato alle sue vicissitudini.
Verranno pubblicate parecchie raccolte per incensare l’attività incessante e vi sarà almeno un altro album degno di nota (Back To Bogalusa, 2001) prima della morte, avvenuta nel 2005.
La ciliegina sulla torta rimarrà il concerto a Montreux tenutosi nel 2004, con Santana, Buddy Guy, Nile Rodgers e Bobby Parker, fortunatamente immortalato in DVD (2006). Pur con qualche acciacco dovuto all’età e a un pizzico di emozione, la sua originale miscela di generi coinvolgerà gli spettatori che lo applaudiranno entusiasti.