Un curioso della musica, un artista che ha esplorato territori apparentemente inconciliabili tra loro, dalla classica al jazz, dal pop al rock. Brad Mehldau, rinomato, estroso e iconico pianista, non ha mai fatto mistero di avere altre passioni fuori dalla casa jazz che abitualmente abita, e ha sempre trovato il modo di misurarsi con quegli artisti (Radiohead, Yes, Rush, Nirvana, Gentle Gianrt, etc) che hanno rappresentato, e rappresentano, una cospicua parte della sua personale raccolta di dischi. Mehldau crede, soprattutto, che un’affascinante commistione di generi sia la chiave per la longevità di quella forma d’arte chiamata musica.
Così era inevitabile che il pianista prima o poi rendesse omaggio in chiave jazz alla musica dei Beatles, con un album di piano solo, intitolato Your Mother Should Know, registrazione di un concerto tenutosi nel 2020 alla Philharmonie de Paris.
Fan di lunga data dei Beatles, Mehldau è rimasto sempre affascinato da quella metamorfosi psichedelica del gruppo a metà degli anni Sessanta, quando le loro armonie insolite e i ritmi eccentrici si infiltrarono nel pop attraverso album come Rubber Soul e Revolver. Una fascinazione così pressante che, spesso, a partire dagli anni Novanta, ha spinto il musicista americano a inserire nel suo repertorio reinterpretazioni delle canzoni dei Fab Four, fino ad arrivare a questo disco, che può dirsi un omaggio definitivo, dal momento che degli undici brani in scaletta, tutte portano la firma del duo Lennon/McCartney, ad eccezione della chiosa, con cui si cimenta in una emozionante cover di "Life On Mars?" di David Bowie.
Il pianista, tuttavia, si concentra principalmente su una selezione dei brani meno conosciuti del songbook del quartetto di Liverpool, nessuno dei quali, questo è un valore aggiunto dell’opera, è mai stato registrato da lui in precedenza. Mehldau evita di cadere nella trappola della mera rivisitazione, il suo tocco ha un approccio multiforme eppure minimal, che mette in luce le colorate e sublimi architetture melodiche dei brani scelti.
Gioielli psichedelici come "She Said She Said" e "I Am The Walrus" si sviluppano con naturalezza e suonano scintillanti nelle dita di chi, queste canzoni, le ha ascoltate centinaia di volte, mentre in altri episodi ("I Saw Her Standing There" e "Baby's in Black") vengono messe in risalto quelle radici R&B e gospel che spesso hanno connotato il suo approccio alla composizione.
La ninna nanna di "Golden Slumbers" diventa sempre più blues fino a evaporare in scintillanti sussurri, e la citata "Life on Mars?" è una vorticosa improvvisazione contrappuntistica che fa ruggire il pubblico della Philharmonie de Paris. Il tutto delicatamente filtrato attraverso un vocabolario che include jazz, blues, folk-rock e una spolverata di malinconico romanticismo (la struggente rilettura di "Here, There And Everywhere").
Il tocco altamente espressivo e dinamico di Mehldau è gioia per le orecchie e qualche colpo di scena inaspettato aggiunge una nuova dimensione ai brani, senza tuttavia trasfigurarne l’habitus originale. Una ricetta, questa, che probabilmente soddisferà sia gli amanti del jazz che i fan più intransigenti dei Beatles. E anche se Mehldau, come solista, ha dovuto scambiare la tempra più muscolare del rock con una delicatezza musicale da camera, nulla della sua potenza espressiva viene meno.