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REVIEWSLE RECENSIONI
Young Sick Camellia
St. Paul & The Broken Bones
2018  (Records JV)
BLACK/SOUL/R'N'B/FUNK
8/10
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04/12/2018
St. Paul & The Broken Bones
Young Sick Camellia
Con questo ultimo Young Sick Camellia, il combo non solo conferma quanto di buono avevamo ascoltato nei dischi precedenti, ma fa un ulteriore passo avanti, sia nel suono che nella qualità del songwriting

Certi dischi sono una splendida fregatura: li metti sul piatto e ciaone a tutti gli arretrati che devono essere necessariamente ascoltati prima che finisca l’anno solare. E così, Young, Sick Camellia, terza prova in studio dei St. Paul & The Broken Bones, ha creato un ingorgo pazzesco fra tutti i miei ascolti, ma è così bello che faccio davvero fatica a toglierlo dalla heavy rotation. Occorre, prima di ogni altra considerazione, fare le dovute presentazioni, visto che questa band, per il momento, è un godimento riservato a pochi eletti amanti dell’immenso patrimonio musicale proveniente dagli Stati Uniti.

Birmingham, Alabama, profondo Sud. Qui, nel 2012, un contabile annoiato da una vita ordinaria, decide di rischiare tutto e di dare forma ai propri sogni musicali. Si chiama Paul Janeway, e insieme al bassista Jesse Phillips fonda i St. Paul & The Broken Bones, band di otto elementi uniti da una passionaccia per il soul, il funky e il r’n’b.

Il percorso musicale di Janeway, d’altra parte, si è sviluppato all’ombra del suono Stax e Motown: tantissimi dischi ascoltati da ragazzino, i primi passi mossi nel coro della chiesa, come nella miglior tradizione dei black singers, e le foto di Otis Redding e Sam Cooke tenute sul comodino del letto a indicare quotidianamente la strada.

La gavetta è quella consueta, fatta di prove in garage umidi, di concerti retribuiti poco e male, in piccoli locali della zona, di speranze alimentate solo dall’entusiasmo. La svolta, come detto, arriva nel 2012, quando gli appena costituiti St. Paul & The Broken Bones pubblicano un Ep autoprodotto (Greetings From St. Paul And The Broken Bones) che attira l’attenzione della Single Lock Records, casa discografica fondata da John Paul White (The Civil Wars) e da Ben Tanner (Alabama Shakes), il quale produce anche l’esordio della band, intitolato Half The City (2014).

L’impressione suscitata dall’ottetto è tale che, non solo il disco scala, con ottimi risultati, le impervie charts americane, ma i Roling Stones, in tour negli States, vogliono i St. Paul ad aprire due loro concerti. E’ l’inizio di una grande avventura che prosegue con Sea Of Noise, secondo full lenght, prodotto da Paul Butler, già dietro la consolle in Home Again, esordio di Michael Kiwanuka, datato 2012. La seconda prova in studio, se possibile, era ancora più convincente della precedente e la band dimostra nuovamente di avere tante frecce al proprio arco.

Ma è con questo ultimo Young Sick Camellia che il combo non solo conferma quanto di buono avevamo ascoltato nei dischi precedenti, ma fa un ulteriore passo avanti, sia nel suono che nella qualità del songwriting. Se è vero che le fonti d’ispirazione dei St. Paul emergono inevitabilmente da un glorioso passato (per i precedenti dischi, Sam Cooke, Otis Redding, Al Green, George Clinton, etc.), in Young Sick Camellia la macchina del tempo viaggia prevalentemente attraverso il funk e la dance degli anni ’70, ma con una rilettura modernissima, evitando così datati clichè e puntando, invece, su melodie di impatto immediato, che non disdegnano passaggi radiofonici ed entrano in testa dopo pochi ascolti, grazie anche a una veste, talvolta, disegnata da un atelier nu-soul.

Prodotto da Jack Splash (Kendrick Lamar, Mayer Hawthorne), il disco è attraversato dal fil rouge di brevi intermezzi strumentali e dal sapore vagamente jazzy, che collegano le nove canzoni che compongono il corpus dell’album. Si va dall’estetica dandy della progressione discendente di Convex, il cui groove è punteggiato da un brillante arrangiamento d’ottoni, alla sfacciataggine disco di Got It Bad, autentico riempipista vintage, agli echi Bee Gees, epoca Main Course, del singolo Apollo, al lento strappamutande di Concave, i cui archi suggeriscono un mood trasognato, e alla conclusiva Bruised Fruit, gonfia di umori malinconici, in cui Janeway si supera per intensità, usando la voce quasi fosse un sassofono e oscillando fra disperazione e dolcezza.  

Nonostante la coerenza d’intenti e l’omogeneità del suono, Young Sick Camellia è un disco estremamente vario, quasi a due facce, che stupisce con la semplicità di groove e melodie irresistibili e al contempo con arrangiamenti sfaccettati e mai prevedibili, dispensando emozioni per retromaniaci della black music e suggestioni per chi ama, invece, la visione più moderna del nu-soul. Caldamente consigliato.