Proprio come le suggestioni della giovinezza, i sogni lasciati lì nelle camerette dove si ascoltava e registrava musica, non più con l’ansia di realizzarli ma con l’indolenza serena di chi vuole dar loro una seconda possibilità. Puoi ritrovarti da adulto a voler rendere omaggio al ragazzino che eri, a voler scrivere canzoni che catturino quel tempo non inteso in senso finito e demarcato ma più come mood temporale diffuso e interiore. Un “Alla ricerca del tempo perduto” in veste musicale. Queste le mie primissime impressioni all’ascolto di You Can Dream It In Reverse, terzo album dei Black Tail, progetto musicale sospeso fra Roma, Latina e Boston (dove il cantante, Cristiano Pizzuti, si trovava anni fa e dove ebbe l’ispirazione primaria) e indie rock nel senso più puro del termine. In uscita il prossimo 13 marzo per Mia Cameretta/Lady Sometimes, intriso degli echi dei più “dimessi” e sognanti gruppi indie a cavallo fra i 2 millenni, sospeso fra un tenue dream pop e il new folk, con non poche derivazioni sixties.
L’ascolto privato sul link di Soundcloud cui sono stata ammessa è stato di una piacevolezza per me insolita. Ho sentito di aver goduto in anteprima di un qualcosa di davvero bello. Sarà perché di sicuro condivido con la band orgogli e fomenti generazionali (noi degli anni ’90), sarà perché tutto in questo album, dagli arrangiamenti al cantato, al suono che profuma di nastro e analogico, alla cover, è familiare, prossimo, condiviso. Porre in essere, scrivendo canzoni, il mondo interiore, troppo spesso soffocato di una generazione di mezzo in cerca di nuove sonorità e nuovi riferimenti non solo musicali. Venuti dopo il grunge, che abbiamo tanto amato, ultimo grande genere “definito” del XX secolo. Nostalgici di epoche non vissute (di sicuro amiamo tutti perdutamente gli anni ’60). Persi nell’assemblare pezzi del sound del passato nel tentativo di creare qualcosa di nuovo. Raggiungendo l’obiettivo di realizzare nuove ricette musicali, composite e ricche di storie. Trovando in queste rielaborazioni e contaminazioni la propria fragile identità. Fragile come tutto ciò che è giovane, e che viene dopo decenni di fasti e prorompenze musicali.
Questo disco, in 47 minuti e 9 brani, ci dà l’idea di tutto questo, e ci fa socchiudere gli occhi mentre con un sorriso non possiamo che aderire al suo sentire di fondo. Già i titoli dei brani sono evocativi di quell’atmosfera da summer ending che permea l’intero lavoro e di suggestioni venute da lontano, magari proprio da quel Nord America che innescò la miccia creativa del progetto. China Blue (Sixteen), Sequoia, Apple Trees, per dirne tre. Il primo apre l’album e ti guida delicatamente per mano in questo viaggio rilassato che si snoda in episodi più o meno omogenei fra di loro per sonorità e tematiche legate al ricordo. I toni sono pacati pure nei crescendo e pure nei pezzi più veloci, eppure i battiti del cuore hanno dei giri sempre alti. Sarà perché questo disco riesce a colpire e a raccontare anche senza urlare troppo la sua intima idea di rock’n’roll. Con la grazia di un adulto che, finalmente, fa uscire dalla sua cameretta l’adolescente che sognava i suoi scenari musicali.