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REVIEWSLE RECENSIONI
07/01/2020
Yesterday Will Be Great
Y
L'esordio degli Yesterday Will Be Great è un disco breve, solo cinque canzoni, ma di intensa e sinistra bellezza

Gli opposti, i contrasti, le collisioni. Scartare la linearità ed evitare il prevedibile è spesso ciò che dona alla musica un fascino superiore e diverso dal mero esercizio di stile o dal puro divertimento, perché la stratifica, la rende volubile, inafferrabile, elusiva.

In tal senso, Y, Ep d’esordio dei ravennati Yesterday Will Be Great si presenta come un’opera antinomica su diversi piani, sia formali che concettuali. C’è la distanza breve (cinque canzoni per poco più di mezz’ora di musica) e, per converso, il superamento della classica formula canzone, sia per il minutaggio (la maggior parte delle canzoni superano i cinque minuti di durata) che per la struttura. I brani, poi, sono stratificati, possiedono una cerebrale inclinazione alla complessità, eppure sono scossi da un impeto istintivo, fisico, molto muscolare. Infine, gli YWBG operano all’interno di Y un apparentamento scorbutico fra post rock e psichedelia, due generi che confliggono, che sgomitano per rubarsi la scena, finendo poi per trovarsi a convivere in perfetto equilibrio.

D’altra parte cosa aspettarsi da una band che ha scelto come nome una sorta di paradosso temporale? “Ieri sarà fantastico”: ennesima antinomia, scontro di prospettive, passato e futuro come lente per guardare a un presente che è al contempo suggestione nostalgica e empito di speranza per tutto ciò che non è stato ma potrà essere.

Simone Ricci (chitarra), Massimo Gardini (basso e voce), entrambi ex componenti dei Kisses From Mars, e Daniele Mambelli (batteria) allestiscono uno scenario cupo, ossianico, in cui si sviluppano cinque canzoni ondivaghe fra atmosfere sognanti e cinematiche e accessi di fragore, che imboccano strade dal declivio ipnagogico che finiscono irrimediabilmente per schiantarsi contro muri di chitarre fragorose.

Non c’è però dispersione di energia né irruenza fine a se stessa, perché anche i momenti più violenti vengono indirizzati e trattenuti in una visione d’insieme coerente ed equilibrata. Gestire la forma ed essere padroni della materia, mantenendo la giusta distanza, evitando le sbavature, per convogliare il pathos in uno stile immediatamente riconoscibile.

Solo cinque canzoni, dicevamo, ma tutte necessarie, dirette, prive di fronzoli, anche quando aprono a dimensioni parallele di onirica luminescenza. Come accade, ad esempio, nell’iniziale Someday, le cui atmosfere lisergiche dal sapore beatlesiano vengono scandite da una ritmica secca, quadrata, per arrestarsi poi di fronte al frangiflutti di un’esplosione noise di tonitruanti chitarre, o nella successiva Babylon, le cui volute psichedeliche deragliano in un riff sinistro di matrice sabbathiana.  

Le spire avvolgenti della lunga You, Above The Ocean, aprono all’inquietudine di una notte senza luna, tenebrosa e ostile, sensazione, poi, ampliata nella successiva Any Our, che spinge verso atmosfere dark wave, grazie a una pulsante e invasiva linea di basso e al neon a intermittenza della chitarra di Ricci.

Chiude la scaletta la tambureggiante Goodbye, dagli accenti quasi presbiteriani, che delinea una perfetta alchimia tra ieratica solennità, visione lisergica, ipnotica circolarità post rock e ancestrale inquietudine. Canzone pregna di epos, che sigilla un disco breve ma di intensa e sinistra bellezza.


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