Una marcia militare, fanfare in lontananza.
Quasi la colonna sonora di Lalo Schifrin per qualche filmone di guerra alternativo.
Poi inizia una recita a cappella, ritmata come da un invisibile battito di mani. Un bambino senza volto giace a terra. Fumo sulle colline. Ambulanze impazzite.
Quando riprende quel rullante persistente, filo rosso nascosto di tutto l'album, è già subentrata la sarabanda acida di una psichedelia combattiva e guerreggiante, che percorre le strada come la parata tragicomica di un eroe disperso.
Chi ha pensato ad un “poema” come questo? Chi ha composto World War IV?
Sembra di vederlo, sdraiato in dormiveglia su di un prato primaverile del Norfolk, quando le farfalle ancora non erano estinte. Attorno i bambini giocano con palloni colorati. Le onde sbattono. Bolle di sapone.
Big Boy Pete, già nel 1968, le aveva provate quasi tutte.
Decine di band del sottobosco. Aveva fallito.
Singoli ultra psicotici a proprio nome. Aveva fallito.
Così decise di rinchiudersi come un eremita tecnologico nello studio di Norwich, dove, tutto solo, più per contingenza e necessità che per megalomania, aveva inciso tutte quante le parti strumentali di una lunga opera rock.
Opera.
Era il periodo di Tommy, S.F. Sorrow, dei concept più spinti.
Big Boy lavorò a World War IV per circa un anno. All’epoca pura avanguardia.
A sentirlo oggi potrebbe sembrare il campionamento accurato di un lustro di beat inglese, un trionfo di tutta la Britannia floreale, della portata di un Sgt. Pepper per tempi apocalittici.
Dentro c'è tutto: “Lady Jane”, Their Satanic Majesties Requests, mezzo catalogo dei Fab Four, ma anche “I Can See for Miles”, “Acid Queen”, i primordiali Spooky Tooth nel guscio degli Art, Small Faces, “Pictures of Matchstick Man”. Poi le stramberie scozzesi della Incredible String Band, “A Very Cellular Song”, le ultra epopee dei Rush di 2112. Qualche sitar scordato, embrioni della Pink Floyd Blues Band, bombe sulla base di Khe Sanh, spaccati spaziali e grondanti distorsione nel finale del “Movement 2”.
Troppo da riassumere, un flusso continuo che si trasforma di volta in volta in un medley aleatorio che ruota con la meravigliosa casualità del caleidoscopio, abbozzando canzoni, lasciandole sospese, interrompendole brutalmente per poi ripescarle a distanza di chilometri.
E c'è sempre la sottile tensione, l’attesa che qualcosa di veramente grosso stia per succedere. E quando, nel grandioso e vibrante “Finale”, tutto si stempera in una melliflua e minimale recita per doppio organo è come risvegliarsi in sperimentazioni teutoniche che sorgono da un lago spaziale ricolmo di nuvole gassose.
Tra le trincee della Grande Guerra.
Il crocifisso batte colpi contro il legno di una bara planetaria; ragazze rosa si sciolgono ai raggi dell'estate.
Pare paradossale che in tutta questa massa strumentale filtrata attraverso i più svariati marchingegni sonori che la fine dei '60 metteva a disposizione, sia la voce di Bog Boy a svettare su tutto il resto. Misurata, ora languida, sempre rotonda, suadente. Anche quando, sul campo di battaglia, si traveste coi pesanti panni del Generale che la Morte scelse per celarsi al mondo nelle parole che il conte Kutuzov servì a Musorgskij per il suo macabro ciclo liederistico.
Un'apocalisse morbida e coloratissima, liquefatta in bolle concentriche e mutevoli, che si dipana, in perfetta continuità, per oltre 45 minuti divisi in 6 "movimenti" che al loro interno si frantumano l'un l'altro in decine di mini episodi musicali, giochi di specchi con leitmotiv che ritornano qua e là come il sole tra le nuvole d'aprile, tenuti assieme solo dai colori di una Pasqua dei sensi remoti.
La storia di World War IV è semplice: non fu pubblicato.
Mixato, prodotto, rifinito e pronto nel 1969, fu quasi distribuito dalla Apple dei Beatles.
Quasi.
C'è una bella differenza.
Ha visto la luce per la prima volta nel 2000. A 38 anni dalla sua incisione.
Gli anni '60 hanno perso un’ altra bella occasione...