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REVIEWSLE RECENSIONI
17/05/2023
The Abbey
Word Of Sin
Il tenebroso esordio dei finlandesi The Abbey con nove canzoni che si muovono tra occultismo, doom e progressive.

C’è un po’ d’Italia nel nome di questa band finlandese, che ha deciso di chiamarsi The Abbey proprio in onore dell’abbazia di Thelema, una villetta situata a Cefalù, in Sicilia che fungeva da tempio e centro spirituale per gli adepti dell’occultista inglese Aleister Crowley. E non è un riferimento scelto a caso, visto che il gruppo fondato da Jesse Heikkinen insieme a Natalie Koskinen (la formazione comprende anche Janne Markus, Vesa Ranta e Henri Avola) fa dell’occulto, della magia e dell’esoterismo l’oggetto principale della propria narrazione, sia musicale che testuale.

Word of Sin è, quindi, un album avvolto in un’atmosfera cupa, crepuscolare, inquietante, perfetta per tutti coloro si trovano a proprio agio nelle tenebre della notte e disdegnano, invece, la luce abbagliante del sole. Un vortice melodico di misticismo racchiude, infatti, queste nove canzoni che attingono dal doom (qualche riferimento ai Black Sabbath è evidente) ma che si sviluppano attraverso trame contigue al progressive, vestendosi talvolta di sfumature sinfoniche. Un disco oscuro, dicevamo, ma che prende, però, le distanze dalle tinte funeree del doom più estremo, scegliendo spesso e volentieri il sentiero di melodie malinconiche e agrodolci.

Il risultato è un album sorprendente, che se da un lato appare troppo tetro e catacombale per un semplice album rock, dall'altro è abbastanza morbido per non essere considerato un vero e proprio album di doom.

"Rat King" apre il disco e fornisce il primo assaggio di cosa conterrà la scaletta: atmosfere plumbee, linee di chitarra a metà strada tra il sulfureo e l’epico e impronta melodica nitidissima. Una traccia riccamente strutturata, tra accelerazioni e stasi, che conferiscono al brano il senso di un tortuoso viaggio al limitare della notte, tra doom e prog, cori e tamburi battenti. La successiva "Thousand Dead Witches", coi suoi riff cupi e incalzanti, si allinea all’opener sia per l’impianto melodico che per l’atmosfera opprimente, anche se gli accenti, in questo caso, sono più rock che progressive.

Questo equilibrio fra atmosfere cupe, melodia, strutture complesse e piglio rock è l’elemento cardine del disco: è suggestivo, non risulta mai caotico, ma si dipana armoniosamente, grazie a una produzione e a un mixaggio che legano con naturalezza l’insieme in un’alchimia sonora fascinosa e stratificata. Il songwriting, poi, è di primordine, sia quando, come in "Desert Temple", la band offre il suo lato più heavy metal, sia quando sceglie atmosfere rarefatte a lenta combustione che si gonfiano in un crescendo epico (la splendida "Starless") sia quando veste gli abiti del fosco melodramma ("Widow's Will") o percorre il passo lento del doom con trame di ipnotica malinconia (i dodici minuti finali di "Old Ones").  

Word Of Sin suona esattamente come un vagabondare nella notte oscura tra luoghi che suscitano alternativamente terrore e fascino, e in cui sarebbe facile perdersi, se non fosse per quelle suggestive linee melodiche che illuminano la strada. È un disco che offre molto sia ai fan del doom che a quelli del progressive, e in genere a tutti coloro che hanno ancora un piede negli ’70, ma che cercano qualcosa di più di formule trite e ritrite.