Il successo commerciale ha la capacità di smussare le asperità del caso e di farlo sembrare un destino divino. O forse è il potere della musica, che riesce a riunire due fratelli geniali, ridar loro vigore e creatività per confezionare un album meraviglioso e donar loro nuovamente celebrità. Comunque sia, Woodface rappresenta l'insieme di canzoni più coeso e non forzato dei Crowded House; tuttavia a volte ci vuole un enorme impegno per palesare di far qualcosa senza sforzo. E, in realtà, Woodface è stato un lungo lavoro di fusione di due progetti separati.
L’omonimo esordio dell’’86 ha regalato alla band di Melbourne il successo internazionale grazie alla gettonata hit "Don’t Dream It’s Over" - impossibile non averla ascoltata anche qui in Italia, riproposta pure da Venditti con un altro testo, peraltro in una versione che perde lo spirito originale -, mentre dopo il secondo disco, il discontinuo Temple of Low Men pubblicato due anni più avanti, da ricordare comunque per gemme come "Into Temptation" e "Better Be Home Soon", il frontman Neil Finn, si trova in una sorta di impasse. Forse per un momento mancano l’ispirazione e l’entusiasmo che hanno contraddistinto le prime opere, così i Crowded House si concentrano solo nell’assolvere i loro obblighi rimanenti, nello specifico alcune date live negli Stati Uniti, senza un futuro all’orizzonte. Proprio durante questo tour, nell’aprile 89, Neil trascorre una serata libera a Los Angeles, al China Club sul Sunset Boulevard. In città c'è anche suo fratello Tim, vecchio compagno d’avventura negli Split Enz, gruppo seminale per la scena neozelandese a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta; sta suonando uno showcase di canzoni tratte dal suo terzo lavoro solista e, verso la fine dello spettacolo, riscocca la scintilla tra i due, con una manciata di loro classici eseguiti insieme. Tale fortuita situazione fa da prologo a quanto accadrà nei mesi seguenti.
Sono passati dodici anni da quando i due avevano avuto l'occasione di scrivere a fianco a fianco nella stessa stanza, ma nell'ottobre del 1989 si presenta finalmente l'opportunità di reiterare questo “rito”. Neil e sua moglie Sharon hanno appena acquistato una casa a Murchison St, nel sobborgo di Melbourne. I fratelli trascorrono un po’ di tempo in questo strano spazio, non ancora arredato, ove il sole pomeridiano fa capolino nelle camere vuote e scatena nuovamente l’immaginazione.
“Abbiamo iniziato a suonare su alcune idee, cantando ad alta voce e strimpellando la chitarra acustica con forza su un paio di pezzi che avevamo già in giro. Ho inserito una nuova strofa in una sua canzone e abbiamo pensato: 'Oh, ha funzionato bene'. Poi ci siamo ritrovati a improvvisare con le nostre voci. Stavamo buttando giù strofe in modo molto disinibito. Uno trovava un'armonia, poi compariva un abbozzo di melodia e noi lo coglievamo al volo".
Il racconto di Neil carpisce l’entusiasmo e sottolinea lo “zenit compositivo” raggiunto. Giorno dopo giorno i Finn Brothers cuciono e ricuciono parti di canzoni, scelgono i ritmi e nel giro di due settimane si colgono i primi frutti della fase creativa con i quattro brani che costituiranno il pilastro che sostiene il progetto. Infatti il singolo più celebre di Woodface, quella miscela perfetta pop-rock a nome "Weather with You" nasce in quel periodo. “Ovunque tu vada, porti sempre il tempo con te” è la frase clou del motivo e assume il significato sia di come si senta la mancanza della persona amata, sia di quanto sia impossibile togliere il pensiero dalle cose che ci affliggono anche quando viaggiamo, cercando di staccare la spina. Gli altri tre pezzi sono la profonda "There Goes God", amara riflessione sulla perdita della fede e su ciò che comporta nei rapporti con gli altri, la tenue "How Will You Go", che verrà scelta come traccia finale e affronta con pacatezza e dolcezza il tema dell’alcolismo, e la sorprendente e tenebrosa "All I Ask", la quale merita un breve approfondimento.
“Tutto ciò che chiedo, è di vivere ogni momento libero dall'ultimo”.
Il desiderio di vivere l’esperienza del presente. Rimanendo liberi da quanto accaduto in precedenza. Un tentativo di rifuggire dalla consapevolezza che noi siamo ciò che abbiamo vissuto, Il desiderio di dimenticare il passato, non averlo sempre immanente nelle nostre memorie, come qualcosa di ingombrante e immutabile. Le canzoni vanno veloci, vivono nell’immediato, creano una miniatura del tempo reale, un microcosmo da esplorare in poco, pochissimo tempo, ma possono essere, con alcune parole e note azzeccate, molto profonde. Hanno la forza di mondi sconfinati in cui si intrecciano vite, storie, paesaggi e linguaggi. Il rock non è solo l’attimo, può essere pregno di significato e scuola di vita, basta specchiarvisi con curiosità e sviscerarne la filosofia.
"All I Ask" diventa lo spunto per inserire un meraviglioso arrangiamento d’archi condotto da Jorge Calandrelli e, insieme ad altre motivazioni fra cui l’attrito con la casa discografica, per pensare di coinvolgere il gruppo, in modo da indirizzare l’opera come un prodotto dei Crowded House, con Tim Finn membro aggiunto imprescindibile. La sua abilità compositiva, il canto, i ricami al piano e alla chitarra fungono da stimolo non solo per il fratello, ma anche per il batterista Paul Hester, che contribuisce alla tracklist con la divertente e ironica "Italian Plastic", e per il bassista Nick Seymour, vero protagonista dei pezzi più briosi come "Chocolate Cake" e "Tall Trees", enfatizzati da un groove irresistibile e pure dall’armonica di uno straordinario ospite, il compianto bluesman australiano Chris Wilson.
Lo spirito dei Beatles pervade beatamente Woodface, ma sono soprattutto "It’s Only Natural", "Fall at Your Feet" e "Four Seasons in One Day" a sentirne l’effetto, rimanendo come sospese, eteree a fare da ponte dai sixties ai nineties. In particolare "Four Seasons in One Day" non sfigurerebbe in nessun album di Paul McCartney e mostra il talentuoso livello melodico raggiunto dai Finn.
La coproduzione attenta di Mitchell Froom, la cui scelta di avvalersi di un eclettico ingegnere del suono come Tchad Blake garantisce una qualità sonora da consigliare un attento ascolto in cuffia per scoprire inusitati e piacevoli particolari nascosti, permette di dar risalto anche a composizioni minori come "Whispers and Moans", "Fame is" e "She Goes On". Merita invece una menzione particolare "As Sure As I Am", con David Hidalgo dei Los Lobos alla fisarmonica, a insaporire con influenze tex-mex questa splendida ballata. Infine, il pallino di Neil Finn, le percussioni, in grado di dar risalto ad alcuni aspetti del songwriting, vengono aumentate e rifinite al meglio con artisti del calibro di Ricky Fataar, Alex Acuña e Geoffrey Hales.
“A pensarci bene Woodface è nato per una serie di combinazioni casuali, che porteranno i Crowded House nelle affollate arene di tutta Europa con un disco concepito inizialmente come scambio di idee musicali tra due fratelli artisti nuovamente insieme”.
Le parole di Neil confermano quanto il destino abbia influito sul gruppo e lasciano intravedere il futuro. Nel 1995, infatti viene pubblicato Finn, prosecuzione del lavoro cominciato dai due e poi in parte confluito in Woodface. In seguito il percorso artistico dei fratelli, pur con qualche intreccio, si separa, tra progetti solisti e altri album dei Crowded House, fino al recente Dreamers Are Waiting (2021). Non sarà più la stessa cosa, però, poiché, oltre a Tim, successivamente anche il membro storico Paul Hester abbandona definitivamente la formazione nel 1996 e lascia sgomenti tutti nove anni dopo, togliendosi la vita.
Comunque la band, tra cambi di line-up, temporanei scioglimenti (ufficiali o meno), e conseguenti reunion, sta attraversando ora un intenso periodo, con parecchie date live in Australia, prima di imbarcarsi, nella primavera 2023, in un massiccio tour americano. Parafrasando il titolo del loro brano più celebre, “Hey ora, non sognare che sia finita…adesso cammino ancora al ritmo di una batteria…”.