La più genuina rappresentazione del jazz elettrico del nuovo secolo potrebbe essere il suono dei Dinosaur, il geniale quartetto tutt’altro che giurassico di Laura Jurd. Superate - finalmente - le timbriche forzosamente torride provenienti dalle influenze dell’hip hop, dell’acid-funk e di tutti quei prodotti da hard discount artistico purtroppo ancora in auge, ecco gli straordinari risultati permessi dalle nuove esplorazioni in quello spettro musicale senza confini che la contemporaneità più iconoclasta nei confronti dei vecchi tromboni del jazz (non nel senso dello strumento, s’intende) ci ha aperto.
Come già accaduto per “Together, As One”, il precedente album nominato nel 2017 per il Mercury Prize, l’esperienza di ascolto dei Dinosaur ci proietta in un presente sonoro in cui fa molto più freddo (ma è un bene abbassare le temperature di questi tempi) e i synth sono usati con disinvoltura (vi ricordo che stiamo parlando di jazz) al posto di pianoforte e chitarra, per di più privi di tutti i virtuosismi pacchiani tipici dell’approccio manieristico alle tastiere tipico di chi viene dagli strumenti acustici e scopre le meraviglie delle timbriche artificiali e controllabili a piacimento.
Al centro di “Wonder Trail” resta comunque la suggestiva tromba di Laura Jurd. La musicista britannica, qui ancora accompagnata da Elliot Galvin ai sintetizzatori, Conor Chaplin al basso elettrico e Corrie Dick alla batteria, declama i temi delle sue composizioni sopra ai giochi arrangiativi di un insieme di synth. Synth a volte accennati e a volte maestosi, con suoni sia elementari che ricercati, alcuni sorprendenti come si sentivano agli albori dell’elettronica e altri più rassicuranti, nel modo in cui l’immaginario pop contemporaneo ci ha abituati agli strumenti a tastiera. Il tutto su tempi che amano scomporsi per poi rientrare nella regolarità quando è il brano a richiederlo, tutto sommato qualcuno deve mettere un po’ d’ordine nella musica, anche la più eccentrica come quella di Laura Jurd che ha un solo limite - che poi non è un limite - che è quello di richiedere un ascolto molto, molto attento.
Il sentiero delle meraviglie jazz dei Dinosaur parte con un boato espressivo, un paio di secondi che ricordano addirittura il modo prorompente in cui “Plainsong” apre “Disintegration” dei The Cure. Da qui ha inizio il cammino con la parte 1 di “Renewal”, un dialogo irregolare tra i quattro musicisti che giocano a sovrapporsi, rispondersi, doppiarsi, confermarsi e smentirsi. Il percorso si fa più agevole con “Quiet Thunder”, persino quando il suono si fa potente e distorto, quasi a intimarci di accelerare il passo verso la svolta jazz-rock del finale.
“Shine Your Light” offre invece una sosta all’ascoltatore, con la tromba che giunge da lontano come una eco fino a quando è tempo di rimettersi in marcia ed è il basso a sottolineare l’urgenza di procedere e a sollecitare gli altri componenti. Nella brevissima “Forgive, Forget” è Laura Jurd unica protagonista e il suo brusco finale lascia il posto alla movimentata “Old Times Sake”, con un tema in cui un suono a 8 bit fa il verso alle big band che hanno sancito la storia del jazz, per poi salire in un climax destinato a rompere gli argini e perdersi in un lago di sintetizzatori.
“Set Free” - senza dubbio il brano più originale di un album già piuttosto fuori dalla norma - si basa su una cantilena su un sequenza di tastiere che resta anche quanto la voce lascia posto al basso synth e alla tromba solista per poi prendere il volo con un’apertura a limiti della drum’n’bass. In “Swimming” riprende il gioco dei pattern alternati: basso e tromba che in alcuni punti si danno la mano all’unisono che lasciano il posto a uno sviluppo quasi prog. La parte 2 di “Renewal” potrebbe sembrare l’unica parentesi fusion del disco, se non fosse per quegli inserti di rumore messi a caso come ostacoli a ricordarci in che tempi viviamo.
Con “And Still We Wonder” si chiude l’album e ritorna la voce, questa volta con un piglio da intelligenza artificiale sopra a un loop schematico di synth che disorienta ulteriormente e che sembra non aver mai fine. Se non che finisce, invece, e l’ascoltatore si trova solo, con l’impressione di esser stato protagonista di qualcosa di incredibilmente nuovo, perché “Wonder Trail” si fa percepire come un capolavoro di esplorazione di cui probabilmente non c’è un vero punto di arrivo allo stesso modo con cui “Together, As One” ci aveva lasciato in sospeso. Lunga vita al jazz, viene da dire, se il jazz del futuro sarà come quello dei Dinosaur.