È difficile analizzare un lavoro come questo nel 2020, anno pervaso da rumore, ansia, regole ed egoismo. Nel disco di Harper troviamo invece intimità, tranquillità, libertà e generosità.
Ci sono solo Ben e la sua chitarra lap steel Monteleone a ricamare atmosfere rarefatte in un album fortemente voluto ed in controtendenza rispetto a quello che accade oggi, abituati alle numerose rielaborazioni al computer, alla moda dei “featuring”. L’artista di Claremont concede davvero tutto se stesso e lo condensa in poco più di 31 minuti, con 15 composizioni - alcune veramente “micro”- che, se ad un primo ascolto possono sembrare in verità scarne e simili fra loro, acquisiscono successivamente un’identità precisa. C’è molta abilità nel riuscire a costruire un’incredibile continuità tra i pezzi, sfociante, di conseguenza, in una precisa volontà di considerarli un tutt’uno e nel tempo stesso rendere ogni singola canzone unica ed irripetibile.
È molto importante analizzare il titolo abbinato alla traccia mentre la si ascolta perché può realmente dare precise indicazioni riguardo a “cosa” e “quanto” Harper ci voglia raccontare.
Così dalla inaspettatamente pacata “Istanbul” si arriva alla variegata “New York”, subito seguita dalla catartica “Joshua Tree”. Successivamente arriva il gioiellino “Inland Empire” con la chitarra che infonde serenità mentre costruisce piacevoli e tranquillizzanti fraseggi.
Come poteva il nipote dei gestori di un mitico negozio di strumenti musicali non assorbire quel mondo ed evidenziarlo con un’innata capacità compositiva ed interpretativa? Echi di Ry Cooder e David Lindley -abbinati ad un pizzico di flamenco a dire il vero - non possono non sentirsi, ma arrivano da una spontanea disponibilità a citare le fonti creando qualcosa di totalmente originale.
Senza cantato, con la mancanza quindi di liriche, a volte l’album perde però di tono.”Harlem” e “Lebanon” sembrano più musiche da colonna sonora e si fa fatica ad addentrarvisi senza un supporto visivo. Con “London” si riparte bene e si annusano sfumature quasi rock, si ritorna invece alla malinconia con “Toronto” e “Verona” che evidenziano l’amore per la musica classica . Meritano infine una citazione la più scanzonata “Brittany” , “Bizanet” con la sua melodia trascinante, ruvida , decisamente blues che trasuda un po’ di Robert Johnson e la finale “Paris” che certifica (e lo si nota anche in altre parti dell’opera in realtà) il suo amore per la melodia hawaiana.
Ben Harper ha confezionato un disco in cui ha scelto di affidarsi a spontaneità e delicatezza, ma è palpabile pure una certa monotonia, probabilmente necessaria per questo viaggio solitario all’interno dell’universo delle sue passioni musicali.
Potrebbe essere interessante vedere questo album sfociare in un progetto live, che amplierebbe ancor di più la suo straordinaria eccletticità nei concerti, spesso ricchi di sorprese e novità nella scaletta.