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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
07/07/2017
Creedence Clearwater Revival
Willy & The Poor Boys
Willy And The Poor Boys, ha rappresentato l’anello di congiunzione tra passato e futuro, e ha riscritto le regole del rock’n’roll come oggi ancora lo conosciamo.

Alla fine degli anni ’60, San Francisco è il cuore pulsante della scena musicale statunitense: qui, tra visioni psichedeliche e deliri in acido, prende forma la nouvelle vague del rock a stelle e strisce, capitanata da gruppi come Grateful Dead e Jefferson Airplane, che ben incarnano i fermenti culturali e artistici della città. Frisco, però, è anche il luogo che dà i natali artistici ai Creedence Clearwater Revival, band formatasi a El Cerrito, piccolo borgo ai confini orientali della città, capitanata dal chitarrista e cantante John Fogerty. Il quale, a dispetto delle sperimentazioni lisergiche tanto in voga nella bay area, ha in mente un solo concetto: il Revival. Fogerty ama senza mezzi termini gli anni ’50, il rock’n’roll primitivo di Chuck Berry, Little Richard e Eddie Cochran, il blues e il folk nelle loro accezioni più pure, e guarda come riferimento stilistico Dale Hawkins, trentenne musicista della Lousiana, che rilegge il rock e il blues delle radici con accento sudista, creando un sottogenere che prenderà il nome di Swamp Rock. In piena rivoluzione power flower, Fogerty attua una sorta di controriforma tradizionalista, rimette al centro del suo progetto il roots rock e la musica nera, scrive canzoni essenziali, utilizza le cover (guarda caso una delle più celebri è proprio Suzie Q di Dale Hawkins) per riaffermare il vincolo col passato. Un’operazione, questa, che in mano ad altri poteva risultare una stucchevole operazione di maquillage di sonorità già note, e che, invece, in mano a Fogerty e alla sua band si trasforma, con pochi, ma straordinari dischi, in uno stile ben definito, che sarà la salvezza del rock’n’roll. Così, se si può affermare che senza Elvis Presley i Creedence Clearwater Revival non sarebbero mai esistiti, è altrettanto vero che Fogerty ha il merito indiscusso di aver traghettato Presley oltre il guado degli anni ’60, consegnandolo nelle mani di Bruce Springsteen e Bob Seger, solo per citare due dei nomi che pagano debito verso i CCR. Zeppe di riferimenti ai ’50 e intrise di una negritudine vibrante, le canzoni di Fogerty mettono al riparo il rock dai mutamenti genetici del nuovo mondo psichedelico, riportandolo a una forma essenziale, selvaggia, stradaiola, eppure altrettanto policromatica. E’ Fogerty il padrone assoluto della controrivoluzione: la sua penna, che omaggia con devozione i classici, ha il potere di trasformare in note, melodie pensate per saccheggiare programmazioni radiofoniche e scalare le classifiche; la sua voce, potente e cartavetrata, rievoca il sudore delle piantagioni, possiede la veemenza di un grido definitivo di libertà. Fogerty canta come vorrebbe cantare un nero se solo ne fosse capace: aggredisce l’ascoltatore, gli graffia le orecchie, gli gonfia il cuore di ingenuo entusiasmo, e poi lo spinge a liberarsi dai vincoli delle convenzioni, a ritrovare la purezza nella catarsi del ballo. E’ il 1969, l’anno cruciale per la band, che dopo un esordio convincente ma ancora acerbo, inanella tre dischi leggendari: Bayou Country, Green River e Willy And The Poor Boys. Un vero e proprio tsunami creativo: è’ come se Fogerty sapesse che l’urgenza è tutto, e che il suo rock, così puro, ingenuo ed essenziale, rischia di essere sommerso dall’imperante cambiamento circostante. I Creedence, allora, in dodici mesi, sparano a raffica i loro colpi migliori, raggiungendo la perfezione stilistica (che non è solo forma, ma è soprattutto energia allo stato puro) con il celebratissimo Willy And The Poor Boys. 

Uscito il 2 novembre del 1969, Willy scala le classifiche e vende un milione di copie, certificando in modo definitivo la grandezza della band, una delle poche al mondo capace di pubblicare tre album di fila e tutti a cinque stelle. Manifesto dello Swamp Rock, Willy And The Poor Boys proietta il passato nel futuro, è un disco classico e al contempo avveniristico, suona naif ed esuberante, ma è tinteggiato anche di sfumature dark, che risentono dei tempi funestati dal doloroso conflitto del Vietnam. La copertina e l’iniziale country rock della solare Down On The Corner esplicitano il contenuto di quello che potremmo definire una sorta di concept album: riportare la musica in strada (“Down On The Corner, Out in the street”), in mezzo alla gente, riscoprirne così la vera essenza, che è aggregazione, condivisione, divertimento e stare insieme. Niente intellettualismi, dunque, la musica è solo genuinità, purezza, è il linguaggio semplice delle radici (“Willy and the Poorboys are playin'Bring a nickel; tap your feet. Rooster hits the washboard and people just got to smile”). Non è un caso che in scaletta ci siano anche due sublimi cover (Cotton Fields di Leadbelly e il traditional, anche questo passato dalle mani di Leadbelly, Midnight Special, un divertito r’n’b dal mood festaiolo) e uno strumentale, forse superfluo se decontestualizzato (Poorboy Shuffle), necessarie però tutte a rimarcare il concetto di una musica che per essere vitale deve tornare alle radici, alla terra del blues o alla strada dei buskers, patrimonio della gente semplice che si innamora della melodia ma fatica a comprendere i voli pindarici del movimento psichedelico. Se Don’t Look Now vibra d’amore per Elvis Presley, reinventato in chiave country folk, la gemma hard rock di Fortunate Son indica che il revivalismo di Fogerty sa sposarsi anche con la stretta attualità. Brano fortemente antimilitarista, che sbertuccia il mal vezzo dei figli di ricchi, di notabili e di militari di imboscarsi per evitare la leva obbligatoria. Un scelta di barricata, audace e ironica, che si innesta nella querelle politica dell’epoca, come una decisa presa di posizione a favore della working class (“It ain't me, it ain't me, I ain't no senator's son, son.It ain't me, it ain't me; I ain't no fortunate one, no”). Chiude una scaletta di straordinaria intensità, Effigy, ballata elettro acustica dall’incedere crepuscolare, che pur non rientrando fra i brani più popolari della band, è senz’altro uno degli episodi più riusciti della carriera di Fogerty. La chitarra del leader guida la band in sei minuti in cui si coagulano melodramma, amarezza e innovazione. E’ uno scarto riuscitissimo rispetto alla formula collaudata del revivalismo, un lungo lamento, epico e tristissimo, che segnerà in futuro il songwriting di Neil Young o quello di un antieroe misconosciuto, ma geniale, chiamato Jason Molina. Da questo disco in avanti, la carriera dei Creedence inizia la sua parabola discendente. Se il successivo Cosmo’s Factory (1970) mantiene alto il livello di ispirazione di Fogerty (qui, le grandi hit si sprecano), ma comincia a mostrare la corda di un suono che non conosce più sorprese, con Pendulum (1971) e soprattutto con Mardi Gras (1972) la band, orfana di Tom Fogerty attirato dalle sirene di una carriera solista che non decollò mai, arriva al capolinea e si scioglie. La storia dei Creedence Clearwater Revival è durata solo quattro anni, eppure nonostante il breve periodo di attività, i quattro ragazzi di El Cerrito sono entrati nella leggenda. E’ bastato un anno, il 1969, e tre dischi favolosi, l’ultimo dei quali, Willy And The Poor Boys, ha rappresentato l’anello di congiunzione tra passato e futuro, e ha riscritto le regole del rock’n’roll come oggi ancora lo conosciamo.