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REVIEWSLE RECENSIONI
Wildflowers & All the Rest (Deluxe Edition)
Tom Petty
2020  (Warner Records)
CLASSIC ROCK
9,5/10
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10/11/2020
Tom Petty
Wildflowers & All the Rest (Deluxe Edition)
A cinque anni dall’annuncio, è arrivata finalmente l’edizione estesa di “Wildflowers”, l’ultimo progetto al quale ha lavorato Tom Petty, ricca di tracce inedite, demo e live. Un disco che dopo 26 anni non smette di trasmettere il suo fascino e che può essere tranquillamente considerato il capolavoro dell’artista americano.

Pochi artisti hanno ottenuto fin dagli esordi un controllo pressoché completo sulla propria carriera come Tom Petty. Che si trattasse del prezzo degli album oppure per quale sussidiaria della sua casa discografica pubblicare, il leader degli Heartbreakers ha sempre avuto l’ultima parola. Una sola volta ha dato ascolto ai suoi discografici: era la primavera del 1994 e aveva appena concluso le registrazioni di Wildflowers, il suo secondo album solista. Inutile dire che quasi subito Petty si è pentito della scelta.

La storia è nota. Lasciata la MCA dopo quasi vent’anni, l’allora 44enne rocker originario di Gainsville, Florida, aveva lavorato per i due anni precedenti al suo primo disco per la nuova casa discografica, la Warner, all’epoca guidata da due personalità del calibro di Mo Ostin e Lenny Waronker. Recatosi nei loro uffici per presentare il frutto del lungo lavoro svolto assieme al produttore Rick Rubin, Petty si era sentito obiettare che pubblicare tutte e 25 le canzoni registrate durante le session di Wildflowers sarebbe stato un azzardo da un punto di vista commerciale, dal momento che un CD singolo era più appetibile di uno doppio. Per la prima (e unica) volta nella sua carriera, Petty non forzò la mano e accettò il consiglio: scremò le canzoni, passando da 25 a 15, e le sequenziò nuovamente, in modo che il prodotto finale, per quanto ridotto, rispettasse comunque il più possibile la sua visione artistica (purtroppo negli archivi di Petty non è rimasta traccia della tracklist originale). Alla fine, quello che il 1° novembre 1994 arrivò nei negozi era comunque un album con 63 minuti di musica (la durata di un doppio vinile), la più lunga raccolta di canzoni mai pubblicata fino a quel momento da Tom Petty, un artista che aveva sempre imbastito dischi agili che raramente sfioravano i 40 minuti.

Nonostante Wildflowers si fosse rivelato un successo sotto ogni punto di vista – triplo disco di platino, recensioni entusiaste, singoli in classifica –, nei vent’anni successivi Petty ne fu quasi ossessionato, rifiutandosi di considerarlo un progetto concluso, ben consapevole che la versione originale del disco era superiore a quella pubblicata e che i due anni di scrittura e registrazione dell’album erano stati un periodo magico, di una produttività quasi soprannaturale e sostanzialmente irripetibile. Non è un segreto infatti che gli ultimi tre anni della sua vita Petty li abbia dedicati a un incessante lavoro d’archivio, nel tentativo di assemblare la versione definitiva – e tutta l’operazione Wildflowers & All the Rest si pone lo stesso obiettivo – di quello che ha sempre ritenuto essere il suo capolavoro.

Nei cinque anni precedenti alla lavorazione di Wildflowers, tra carriera solista (Full Moon Fever), Heartbreakers (Into the Great Wide Open), Travelling Wilburys (Vol. 1 e Vol. 3) e gli album postumi di Roy Orbison (Mystery Girl) e Del Shannon (Rock On!), Tom Petty aveva instaurato un rapporto molto stretto con Jeff Lynne, il leader della Electric Light Orchestra celebre per le sue produzioni meticolose, dal sapore tardo beatlesiano, il cui suono scintillante era costruito attraverso elaborate stratificazioni di chitarre acustiche, tastiere e armonie vocali. Ma nel 1992 Petty presagiva che un ciclo della sua vita si stava chiudendo e, complici alcune vicende private e lavorative – la crisi coniugale con l’allora moglie Jane Benyo; le tensioni all’interno degli Heartbreakers, che non avevano vissuto bene la recente parentesi solista del loro leader, in special modo il batterista Stan Lynch; e la complessa risoluzione del contratto con la MCA, a cui doveva ancora un album –, sentiva l’esigenza di lasciarsi tutto alle spalle, anche se la direzione da intraprendere non era ancora visibile all’orizzonte. Come spesso succede, però, il caso ci mise lo zampino, collocando sullo stesso aereo Petty e Rick Rubin, entrambi di ritorno dal concerto tenutosi al Madison Square Garden di New York per celebrare gli allora trent’anni di carriera di Bob Dylan. Rubin, co-fondatore della Def Jam e all’epoca celebre per essere principalmente un produttore Hip-Hop (Run-DMC, Beastie Boys) e Metal (Slayer, The Cult), sorprese Petty quando si mise ad ascoltare con il suo walkman alcuni album di Neil Young. Grazie all’intercessione di Mo Ostin, i due finirono per lavorare insieme.

Per i sette anni successivi, Petty e Rubin operarono a stretto contatto, prima su Wildflowers (1994), poi su Songs and Music from “She’s the One” (1996) e infine su Echo (1999), che sancì la fine del loro rapporto professionale – ma non della stima e dell’amicizia –, a causa della scelta da parte del produttore di lasciare anticipatamente il progetto per andare a lavorare con i Red Hot Chili Peppers su Californication. Tra l’altro, narra la leggenda, fu lo stesso Petty a dare a Rubin il numero di telefono di Johnny Cash, fungendo da catalizzatore per la celebrata serie di album incisi dal Man in Black per l’American Recordings.

Come evidenziato perfettamente da Wildflowers, il Tom Petty al lavoro con Rick Rubin, pur mantenendo intatte gran parte delle sue caratteristiche stilistiche e sonore – un cocktail di Rock & Roll cristallino composto da ¼ di Byrds, ¼ di Rolling Stones, ¼ di Bob Dylan, ¼ di Neil Young e suonato con una perizia e un gusto senza eguali –, non era però lo stesso dei dischi realizzati con i suoi Heartbreakers, comunque utilizzati nell’album, in special modo il chitarrista Mike Campbell e il tastierista Benmont Tench. Incoraggiato dal nuovo produttore, infatti, Petty aveva avuto modo di ampliare il suo songbook, inserendovi elementi provenienti dal Folk inglese (“Don’t Fade on Me”), dal Rockabilly à la Roy Orbison (“Cabin Down Below”), dal Garage (“You Wreck Me”), assieme a influenze beatlesiane (“It’s Good to Be King”), ballate à la Elton John (“Wake Up Time”) ed esperimenti di Blues psichedelico (“House in the Woods”). Ma, soprattutto, si era indirizzato sul Folk Rock, come testimoniano pezzi come “To Find a Friend” (con Ringo Starr alla batteria) e – soprattutto – “You Don’t Know How It Feels”, che da un lato cita “The Joker” di Steve Miller e dall’altra ha una batteria così perfetta e marziale (suonata dal nuovo arrivato Steve Ferrone) da sembrare campionata, chiaramente influenzata dal background Hip-Hop di Rick Rubin.

Se da un punto di vista musicale in Wildflowers Tom Petty non si era dato dei limiti, la stessa cosa aveva fatto con i testi, mai così personali e immaginifici, con dei passaggi dove si può leggere con anni d’anticipo il futuro del rocker. Come in “Time to Move On” e “To Find a Friend”, dove, con un candore e un’onestà incredibili, Petty prefigura il proprio divorzio dalla moglie Jane, tanto che non è fuori luogo considerare questo il suo vero “divorce record” e non tanto il successivo Echo, come spesso invece si sostiene, nel quale in realtà se ne elaborano le conseguenze. Come se non bastasse, nei testi l’ascoltatore ha modo di imbattersi anche in tutta una serie di figure provenienti direttamente dai ricordi di Tom, di quando era un semplice adolescente della Florida: fantasmi che si rifanno vivi dopo anni e la cui storia il cantautore riporta in pezzi come “Only a Broken Heart” e “Wake Up Time”, quest’ultima graziata da un verso da vero fuoriclasse: «You were so cool back in high school, What happened?».

Molti di questi spettri appaiono anche nelle 10 canzoni che compongono All the Rest, il secondo disco di questa nuova edizione di Wildflowers, che raccoglie il materiale originariamente lasciato da parte da Petty dopo la sforbiciata impostagli dalla Warner. Un vero e proprio disco di inediti, composto da 40 minuti di musica che – ascolto dopo ascolto – fanno capire come mai il rocker di Gainsville – che generalmente era ben poco incline a guardarsi indietro – abbia invece ciclicamente pensato, soprattutto nell’ultimo periodo di vita, a un modo per pubblicare questo materiale e rendergli finalmente giustizia.

È vero, per i fan più attenti non tutto quello che c’è in All the Rest è completamente inedito. Una manciata di canzoni (“California”, “Hope You Never”, “Hung Up and Overdue” e “Climb That Hill”, qui presente anche in un’interessante versione Blues con il solo Petty alla chitarra) è uscita in una versione alternativa nella colonna sonora dello sfortunato Rom-Com di Edward Burns She’s the One (film con Jennifer Aniston e Cameron Diaz conosciuto in Italia come Il senso dell’amore), mentre “Leave Virginia Alone” è stata incisa nel 1995 dall’allora compagno di etichetta Rod Stewart nel suo A Spanner in the Works (uno dei rarissimi casi in cui una canzone di Petty è stata incisa da qualcun altro prima di lui). Però, come spesso succede, quello che conta è il contesto, per cui, finalmente riunite tutte sotto lo stesso tetto, le 10 canzoni di All the Rest e le 15 di Wildflowers fanno capire come tra il 1992 e il 1994 Petty stesse attraversando un vero e proprio periodo d’oro. Con l’eccezione di “Somewhere Under Heaven” (pubblicata cinque anni fa nella colona sonora del film Entourage e primo estratto da quello che sarebbe dovuta essere la riedizione del disco curata da Petty in persona), dove le chitarre si intrecciano come i Byrds più lisergici, la maggior parte del materiale conferma il mood generale dell’album principale, con un Petty che sperimenta, mescola le carte e omaggia i suoi miti (i Beach Boys di “Hung Up and Overdue”, con Carl Wilson ai cori; gli Zombies di “Hope You Never”; i Byrds di Fifth Dimension di “Confusion Wheel”), la sua terra d’elezione (“California”), si immerge nel Folk (“Harry Green”) e gioca con il Power Pop, in quel piccolo gioiello che è “Leave Virginia Alone”, un pezzo per il quale una band come i Soul Asylum all’epoca avrebbe fatto carte false e che invece il rocker di Gainsville ha addirittura scelto di non pubblicare. Insomma, 10 pezzi che non fanno che aumentare la portata dell’album originale, sapientemente sequenziati da Ryan Ulyate, che ha curato la produzione della ristampa di Wildflowers assieme ai veterani Mike Campbell e Benmont Tench, alle figlie di Tom Adria e Annakim e alla vedova Dana, seguendo il più possibile le indicazioni lasciate dello stesso Petty.

Che la cura nei dettagli fosse il punto di forza del Tom Petty dell’epoca è evidente anche nella meticolosità delle registrazioni casalinghe che accompagnano la ristampa di Wildflowers, di una qualità sonora così elevata da sembrare un disco fatto e finito. Tra le 15 demo incluse nel terzo disco (Home Recordings), vale la pena segnalare la meravigliosa “There Goes Angela (Dream Away)”, che Petty addirittura non ha mai fatto ascoltare ai suoi musicisti – tanto che Tench ha affermato che se l’avesse sentita, avrebbe fatto di tutto per costringere Tom a registrarla –; “A Feeling of Peace” , che contiene alcuni versi finiti poi in “It’s Good to be King”; “There’s a Break in the Rain”, che qualche anno dopo è diventata “Have Love Will Travel”; “You Don’t Know How It Feels”, che ha un verso (forse il preferito di Petty, «Most things that I worry ’bout, Never happen anyway») finito poi su “Crawling Back to You”; e “Wildflowers”, dove, nel finale, Petty abbozza la melodia di “To Find a Friend”. Segno evidente del metodo di lavorazione di Tom, che spostava frasi e melodie di canzone in canzone, alla ricerca del posto giusto in cui inserirli.

Chiude l’edizione Deluxe della raccolta Wildflowers Live – la Super Deluxe contiene anche un quinto disco, Alternative Versions (Finding Wildflowers), in cui Petty e Rubin sperimentano le canzoni in studio, con piccole variazioni nei testi e negli arrangiamenti –, una bella selezione di materiale proveniente dall’album del 1994 e dintorni, dove la potenza live degli Heartbreakers regala alle canzoni un impatto spettacolare, basti pensare alla versione da sette minuti di “You Don’t Know How It Feels” con cui si apre il disco, all’incalzante “Drivin’ Down to Georgia” (una outtake del periodo), e – soprattutto – agli oltre 11 minuti di “It’s Good to Be King”, registrata durante la residency del 1997 al Fillmore di San Francisco: con i suoi cambi di tempo e di dinamiche e le chitarre di Campbell, Petty e Scott Thurston a scambiarsi gli assoli, è il pezzo dove gli Heartbreakers sono più vicini che mai a poter essere considerati una jam band.

Esattamente due anni fa, nel concludere la recensione alla raccolta An American Treasure, si sottolineava come pubblicazioni come quella, Playback e The Live Anthology fossero solo la punta dell’iceberg di un archivio fatto di centinaia di ore di materiale inedito, che un po’ alla volta verrà portato alla luce, si spera con la cura applicata a questa versione espansa di Wildflowers. A tre anni dalla morte, è inutile negarlo, il mondo del Rock a stelle e strisce sente ancora tremendamente la mancanza di una figura come quella di Tom Petty, un artista che ha lasciato un’impronta enorme nella storia della musica, grazie al suo songwriting e alla bellezza dei suoi dischi, come ha ricordato recentemente anche Margo Price. Per riempire il vuoto provocato da quella perdita, non resta che ascoltare la sua musica. Ma se gli altri due capolavori conclamati della sua discografia, Damn the Torpedoes e Full Moon Fever, erano dei piccoli bignami di Rock & Roll, in nessun altro album Tom Petty è riuscito a riversare l’intero spettro delle sue personalità di autore, musicista e produttore come in Wildflowers.


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