L’effettivo valore di un disco rimane, in ultima analisi, una mera questione soggettiva e ciascun giudizio andrebbe correttamente contestualizzato per capire non tanto l’affidabilità di chi lo ha pronunciato, quanto i fattori che hanno portato quel qualcuno ad esprimersi in tal modo.
Una media di più valutazioni può aiutare a farsi un’idea precisa ma molto spesso neanche questo basta, il nome del gruppo è in grado di influenzare in positivo o in negativo e poi chi mai l’ha detto che la maggioranza ha sempre ragione?
Discussioni tediose, comunque, fatte solo per mettere le mani avanti sull’affermazione che questo sarà molto probabilmente il mio disco dell’anno, o comunque uno dei pochi seriamente candidati a questo ruolo.
Ed è un disco, quello dei texani Black Angels, che non fa altro che seguire pedissequamente i dettami di un genere, chiamiamolo per comodità Heavy Psych, che non permette chissà quali variazioni sulla formula data.
Quel che fa la differenza, o almeno la fa per me (anche se i pareri letti fin qui sono tutti ultra positivi) è che le canzoni qui contenute sono di livello altissimo, con una continuità che forse non avevano mai raggiunto in diciott’anni di carriera. 15 canzoni, 57 minuti di musica, nessun riempitivo e intensità che non cala mai; anzi, se possibile si va a crescere, con i singoli episodi che, man mano che si procede nella scaletta, salgono di livello, in totale controtendenza con quanto accade oggi, coi pezzi forti sistemati all’inizio per ovviare al drastico calo di attenzione degli ascoltatori.
Wilderness of Mirrors, al contrario, rispecchia (perdonate il gioco di parole) nella sua struttura le suggestioni evocate nel titolo: è un disco che presenta molteplici svolgimenti della medesima traccia, che riflette le incarnazioni del rock psichedelico in ogni forma possibile, aggiungendo ogni volta qualcosa in più e spostando l’asticella ogni volta più in alto.
Le intenzioni del gruppo non erano queste, sia chiaro. Alex Maas, Christian Bland e Jake Garcia, con l’aggiunta del nuovo arrivato, il polistrumentista Ramiro Verdooren, si sono chiusi per un anno e mezzo in studio (“C’era la pandemia, non avevamo molto altro da fare”) assieme all’ingegnere del suono Brett Orrison e al produttore John Agnello, semplicemente con l’idea di dare un seguito a Death Song. Hanno scritto 30 canzoni e ne hanno tenute la metà. Lavorare senza fretta, senza scadenze, è stata una condizione necessaria per pubblicare un disco, il loro settimo, che è di gran lunga il migliore della loro carriera. Un disco che, ripeto, non fa altro che ripetere quello che il quartetto texano ha sempre fatto, ma rendendo più elaborato ed eterogeneo il songwriting; il risultato è che le canzoni sono migliori e teniamo presente che stiamo parlando di un gruppo che in passato non ne ha mai sbagliata una.
Nelle loro intenzioni, comunque, Wilderness of Mirrors rappresenta un’ipotetica “colonna sonora post pandemica di ciò che è vero e cosa no”. Come in un infinito gioco di specchi, la realtà si riflette nelle sue plurime interpretazioni, ogni volta distorcendosi sempre di più. Paranoia e paura sembrano essere gli elementi destinati a dominare il quadro, fino a rimanere costanti anche in questa nuova musica.
È un disco che suona nel complesso più “leggero” che in passato, con archi, Mellotron e sintetizzatori a balzare più volte in primo piano rispetto alle chitarre elettriche, le quali peraltro sono impiegate con un minor coefficiente di distorsione rispetto al solito. In questo panorama solo apparentemente pacificato, come se le suggestioni di Luca, l’esordio solista di Alex Maas, fossero state importate anche in seno alla band, domina però un’atmosfera di inquietudine, l’andamento onirico di molte canzoni a trasformarsi più volte in una nenia sinistra.
A colpire è la straordinaria coesione dei quattro, che si manifesta in un suono nitido anche se mai artificialmente pulito, dove ogni strumento appare perfettamente delineato ed inserito nell’insieme, la voce di Maas piuttosto dentro il mix, ma non così tanto come quella di Eddie Glass nell’ultimo disco dei Nebula (una scelta che ho trovato un po’ troppo estrema). Un lavoro accessibile, se lo si guarda attraverso l’incedere iniziale di “Without a Trace”, del singolo “El Jardin” (un brano che parla del declino del pianeta, visto attraverso gli occhi del pianeta stesso), o ancora delle meravigliose litanie acustiche di “The River” e “Here & Now”. Un po’ meno se ci si accosta alla title track, a “History of the Future” e a due tracce sorprendenti come “Vermillion Eyes” e “Icon”, strutture leggermente più elaborate e accento posto più sull’aspetto evocativo piuttosto che sulle melodie portanti. Un album meno “spinto”, dicevamo, ma che non rinuncia neppure ad una sana dose di energia, viste le massicce dosi di groove iniettate da “Empires Falling” e “A Walk on the Outside”.
Un disco che è l’ennesima prova, forse quella definitiva, della grandezza della band di Austin: saper stupire per quasi un’ora di fila utilizzando sempre e solo i soliti elementi ripetuti all’infinito. E con quel fugace accenno a Bach sullo sfumare delle ultime note di “Suffocation”, come a ricordarci che forse ancora un po’ di disarmante bellezza può sopravvivere, in questo declino senza fine della civiltà occidentale.