Non è un segreto che Noel Gallagher non ami particolarmente Be Here Now. Nel 2006, quando ha curato la selezione delle canzoni che sarebbero andate a comporre la raccolta Stop the Clocks, il maggiore tra i Gallagher Bros. ha scelto ben quattro b-side piuttosto che includere un solo pezzo da quell’album. E, come se non bastasse, durante il tour di Dig Out Your Soul, gli Oasis inserirono a sorpresa “My Big Mouth” nella scaletta dei loro concerti per poi smettere di suonarla dopo solo una manciata di date.
Uscito il 21 agosto 1997, all’apice della popolarità sia per gli Oasis sia per il cosiddetto Britpop – di cui si può considerare il canto del cigno –, Be Here Now è senza dubbio, artisticamente parlando, una ferita aperta per Noel, nonostante le vendite stellari e quattro singoli in cima alle classifiche per oltre nove mesi. Tronfio, iperprodotto ed eccessivamente lungo – ma, attenzione, con grandi canzoni e almeno un paio di classici –, Be Here Now doveva essere il magnum opus degli Oasis, ma, a conti fatti, è risultato, come ha ricordato lo stesso Gallagher, nient’altro che il perfetto ritratto di «un gruppo di ragazzi, strafatti di coca, a cui non gliene frega un cazzo». Per cui non è una sorpresa se, vent’anni dopo quel famigerato album e una carriera solista che inizialmente ha preferito la tranquillità e l’usato sicuro, The Chief abbia deciso di riprovarci, nel tentativo di creare finalmente quel disco rock che da anni gli gira in testa e che includa, in un colpo solo, tutte le sue passioni musicali: i Beatles, la psichedelia, l’elettronica alla Chemical Brothers e quella spruzzata di polvere di stelle che solo il glam alla T. Rex sa dare.
Scritto e registrato sotto l’attenta supervisione del produttore/compositore David Holmes – già al lavoro con i Primal Scream per More Light – Who Built the Moon? a un primo ascolto è il meno gallagheriano degli album di Noel Gallagher. La forte cinematicità di “Fort Knox”; le atmosfere da colonna sonora anni Sessanta degli strumentali “Interlude (Wednesday Part 1)” e “End Credits (Wednesday Part 2)”; il recitato in francese che spezza in due “It’s a Beautiful World”; l’atmosfera alla Duran Duran di “She Tought Me How to Fly”; l’insistente riff di thin whistle di “Holy Mountain” – che inizialmente sembra un corpo estraneo alla canzone e poi si rivela essere una melodia difficile da non fischiettare. Sono questi tutti elementi lontani dalla scrittura classica di Noel, piacevoli novità che Holmes ha introdotto nel tentativo di sparigliare le carte dopo anni di pilota automatico in casa Gallagher. A beneficiarne è senza dubbio la penna di Noel, che ne esce fresca e frizzante, riguadagnando un’immediatezza e un’urgenza assenti dai tempi di Dig Out Your Soul – se non, addirittura, da (What’s the Story) Morning Glory? E “Dead in the Water”, che chiude l’album nel ruolo di ghost track ufficiosa, è lì a dimostrarlo: The Chief non scriveva una canzone così genuinamente emozionate dai tempi di “Talk Tonight”.
Ed è proprio per questo che Who Built the Moon? è un disco ingannevole. Perché a un primo livello di lettura sembra l’album più facile, spontaneo e divertente che Noel Gallagher abbia mai realizzato, ma, in realtà, nasconde un grande lavoro di scrittura, arrangiamento e produzione. Ogni elemento è perfettamente al suo posto, ogni melodia è scolpita nella roccia, ogni strumento è arrangiato in maniera impeccabile perché Noel e David Holmes sanno con precisione come ottenere quello che vogliono. Alla fine dei conti, Who Built the Moon? non è nient’altro che la conferma di un vecchio teorema: per fare buona musica basta poco – uno che sappia scrivere le canzoni e un’altro che le sappia vestire. Se solo fosse così facile.