Ho ascoltato White Roses, My God circa un mese fa e la prima reazione che ho avuto è stata quella di contattare l’ufficio stampa per sapere se ci fosse qualche problema con i file audio, in quanto non mi sembrava plausibile che in tutti i brani le parti vocali fossero state alterate in modo decisamente irreversibile. Mi sono tenuto il dubbio per un po’, nel frattempo ho letto la recensione di Blow Up e quando ho visto che lo storico direttore Stefano I. Bianchi aveva vissuto la mia stessa identica esperienza, ho capito che non c’era nessun errore: Alan Sparhawk aveva deciso di giocare con l’autotune come neanche il peggior trapper nostrano.
Si tratta probabilmente della più importante chiave interpretativa per accostarsi a questo suo disco solista, il primo dalla scomparsa della moglie Mimi Parker, nel luglio del 2022. La principale cifra stilistica dei Low è sempre stata l’amalgama pazzesco, al limite del sovrannaturale, tra le voci dei due coniugi; la dose massiccia di effetti, la velocità modificata, le distorsioni e tutto ciò che serve a rendere irriconoscibile il timbro, porta ad ipotizzare un atto di autosabotaggio o, piuttosto, la volontà di lanciare un forte segnale di discontinuità con un’esperienza che si è fatta ormai purtroppo irripetibile.
L’altro punto che non si può fare a meno di notare è che Alan Sparhawk è sempre stato un chitarrista eccellente, probabilmente tra i migliori della sua generazione, per tocco e ispirazione; bene, in questo disco della chitarra non c’è traccia o, se non altro, non la si ritrova declinata nel modo in cui i dischi dei Low ci avevano abituato almeno prima di Double Negative.
Le dieci tracce, per poco meno di quaranta minuti di durata, di cui si compone un disco che è stato definito dal suo autore “Hyperpop record about grief”, vivono di un’esplicita rarefazione elettronica, forzano tempi e modi di una costruzione sonora che sembra fatta apposta per amplificare il dolore, nonostante il tono apparentemente leggero.
“Mimi amava le rose e a volte penso che lei sia Dio”. Parte da qui, da questa affermazione che è poi stata parafrasata nel titolo, il commosso ricordo della compagnia di una vita, famigliare e professionale, e probabilmente la forma così sconnessa in superficie, a tratti forzatamente autoironica, è conseguenza della consapevolezza che nessuno sforzo umano potrà colmare un tale vuoto.
Già tornare al lavoro non è stato facile, pare che sia stato il suo amico Kurt Wagner (Lambchop) a convincerlo a tornare a suonare dal vivo: ci sono state alcune date in apertura ai Godspeed You! Black Emperor ed un concerto nella scorsa edizione di Le Guess Who?, dove immagino sia stata presentata gran parte di questo materiale.
Prodotto assieme a Nat Harvie e suonato con l’aiuto dei figli Cyrus (basso) e Hollis (backing vocals, anche se nel mare di effetti e distorsioni non è facile accorgersene), come una sorta di lascito e un tentativo di aggrapparsi a ciò che rimane, White Roses, My God risulta destabilizzante in ogni nota. L’illusione che ci siano comunque delle buone idee, tra i solchi di queste canzoni, svanisce di fronte alle parti vocali esageratamente alterate, al punto tale da coprire ogni possibile residuo di bellezza.
Anche i testi risentono in parte di questo approccio, essendo in parte slogan ripetuti, secondo il modus operandi della musica elettronica (“I Made This Beat” ne è l’esempio più eclatante, con la frase del titolo ripetuta all’infinito, all’interno di un brano che ha un certo richiamo ai Daft Punk; la stessa cosa fa in “Somebody Else’s Room”, con la sua reiterata affermazione che “There’s a party in the basement”, i cui contorni sono lasciati volutamente vaghi), mentre altrove paiono celare riferimenti a Mimi, ma sempre con un certo tono anestetizzato (“Heaven/It’s a lonely place if you’re alone/I wanna be there with the people that I love/Maybe someone that you’re waiting/Oh, who who’s gonna be there/Yeah you”); in “Can U Hear” si passa dal desiderio di essere insensibili alle emozioni, al volere nonostante tutto provare qualcosa.
E man mano che i brani scorrono si ha l’impressione di non essere di fronte ad un lavoro che serva ad elaborare il lutto quanto, piuttosto, ad un timido e confuso tentativo di tornare a divertirsi con la propria vocazione professionale. Un tentativo fin troppo respingente, forse, che almeno nel mio caso non riesce a convincere. Va comunque apprezzato che Alan Sparhawk abbia ancora voglia di dire qualcosa; probabilmente nel corso del tempo riuscirà a mettere ulteriormente a fuoco le proprie idee e saprà regalarci altra bellezza, quasi come quella che eravamo abituati a contemplare coi Low.