Probabilmente Eumir Deodato al momento è più celebre per essere il nonno di Hailey Baldwin, figlia dell’attore Stephen –fratello di Alec- che per l’illustre carriera in cui si è immerso ed è emerso come produttore, arrangiatore e compositore. Se poi la nipote è pure diventata consorte di Justin Bieber, le sue speranze di potersi ritagliare un’intervista o partecipare a un evento senza sentirsi citare tutti questi personaggi si possono ridurre al lumicino…
Bene, ora, tolto il dente della presentazione necessaria al giorno d’oggi per incuriosire riguardo a un artista probabilmente sconosciuto ai più, non si può che rimanere affascinati dalla strana traiettoria che ha subito negli anni il suo percorso musicale.
Nato a Rio de Janeiro, da genitori italo-portoghesi, diventa un ottimo fisarmonicista fin da ragazzino, si cimenta successivamente al piano, forma le prime band in cui suona magistralmente la bossa nova e studia per diventare un provetto orchestratore, affascinato dall’avvento dei sintetizzatori che consentono di elaborare sentieri sonori inimmaginabili poco tempo prima.
Si trasferisce poi negli Stati Uniti, a New York, nel 1967 e comincia a costruire musica con uno stile unico che mischia il jazz, suo riferimento primordiale, al “latin” del proprio Paese. Prelude e Deodato 2 escono entrambi nel 1973 e accrescono la fama del compositore brasiliano grazie a un fresco cocktail di stilosi pezzi originali affiancati a riletture da favola di standard e brani famosi. Sono tutti strumentali, ma eseguiti con un’inventiva straordinaria, dando spazio all’incrocio di ogni genere. Si va dalla sorprendente, spumeggiante ripresa in chiave funky-jazz di Così parlò Zaratustra -Also Sprach Zarathustra (2001)- capolavoro di Strauss utilizzato in 2001: Odissea nello Spazio, alla rilassata, tenue Carly & Carole, dedicata a due eccellenze del cantautorato femminile, la Simon e la King. E anche la sognante Nights in White Satin dei Moody Blues diventa territorio per liberare il suo piano elettrico che, aiutato da una chitarra affilata e dei fiati turbolenti, trasformano questa soffice ballata sinfonico-progressive in una roboante cavalcata acida, degna precorritrice di quanto sviluppò il James Taylor Quartet a partire da metà anni’80.
Whirlwinds arriva poco dopo, 1974, al seguito di un significativo cambio di etichetta discografica che però non sortisce gli effetti sperati. E’ l’ultimo album “importante” di Deodato che perderà smalto nei successivi, concentrandosi poi soprattutto su arrangiamenti e produzione per centinaia di gruppi e musicisti, fra cui Kool & the Gang –si veda ad esempio la famosissima Celebration-, Chuck Mangione, Larry Graham, k.d. lang e Björk.
Sulla falsariga dei due precedenti dischi di successo anche Whirlwinds si apre con un classico, stavolta del repertorio di Glenn Miller, Moonlight Serenade. Questo capolavoro che si potrebbe definire un caposaldo del jazz easy listening, melodioso, dolcemente ovattato, viene stravolto e ripensato con la bossa nova in testa, la jazz fusion nel cuore e un ritmo latino coinvolgente con lampi di samba, funk e rock a infiammare l’incisione, avvenuta nei mitici studi Record Plant, a New York. Certamente, poi, poter contare su una band entusiasmante, con personaggi di assoluto spicco, ha fatto la differenza. Vi sono addirittura due bassisti nella canzone, John Giulino e un sontuoso Tony Levin, in quel periodo agli inizi di notorietà, pronto a farla da padrone nella sezione centrale e pure irrefrenabile in un folgorante assolo. La batteria è saldamente in mano a Billy Cobham, probabilmente il miglior jazz-rock drummer esistente al mondo, coadiuvato dai percussionisti Rubens Bassini e Gilmore Digap, mentre il fiore all’occhiello dell’ensemble è il chitarrista John Tropea, vera istituzione nel mondo funk e soul jazz. Tropea non solo arricchisce il groove generale con i suoi solo fulminanti, ma partecipa attivamente alla composizione della title track, Whirlwinds, voluta da Deodato molto reminiscente del suono dei Santana. A differenza del gruppo americano vi sono, però, incendiarie virate fusion, infervorate da tastiere e sintetizzatori di ogni tipo. Un altro marchio di fabbrica del musicista brasiliano è l’abilità nel miscelare all’interno delle tracce un corposo e copioso uso dei fiati, con tuba, trombe, tromboni, “flutes”, sassofoni, “french horns” e un più tenue utilizzo di viole, violoncelli e violini, maggiormente prominenti solo nell’Ave Maria di Schubert, stupefacente invece per dolcezza e per quello strano arrangiamento da ballata rock. La festa degli “ottoni” è un leitmotiv di Do It Again, pezzone degli Steely Dan impreziosito dai gorgheggi stratosferici di un Tropea in stato di grazia.
L’oscura, misteriosa e autografa West 42nd Street, dall’andamento ondeggiante e con sussulti cinematografici, sarebbe davvero stata una perfetta colonna sonora per alcuni film polizieschi anni ‘70, mentre in Havana Strut il buon Sam Burtis (Carla Bley e Tito Puente fra le sue collaborazioni) concede un solo di trombone estasiante.
Deodato è riuscito nell’impresa unica di far assaporare un poco di Herbie Hancock, Ron Carter, George Benson, Eric Gale, Maurice Ravel, Igor Stravinsky, Gil Evans e Henry Mancini all’interno delle sue opere pur mantenendo una spiccata originalità. Una vivacità fuori dal comune, doti artistiche innate, smisurate, che gli hanno permesso di ritagliarsi uno spazio importante nella storia della musica. Eccentrico, fantasioso, curioso, ma anche molto, molto umile e ironico.
Rimane negli annali la conclusione di un’intervista concessa tempo fa in cui alla classica domanda “Come vedi Eumir Deodato al giorno d’oggi?” è seguita una risposta assai spassosa, “Vedo Eumir Deodato tutti i giorni…allo specchio!!! Specialmente quando mi sto facendo la barba…”