Whiplash è fatto da outsiders: ha per protagonista un attore di cui si fatica a ricordare il nome, quel genere di attore visto e visto più volte a cui però non si associa né una pellicola in particolare né, per l'appunto, un nome. È il padre di Juno, è il burbero datore di Peter Parker. È J.K. Simmons che solo ora all'età di 60 anni, trova il ruolo che lo consacra e lo farà ricordare.
Anche perché sfido a dimenticarvi di Terence Fletcher.
Con lui, il giovane Miles Teller, finora abbonato a ruoli adolescenziali in film adolescenziali.
Nessun grande attore quindi, nessuna grande storia di un grande personaggio da raccontare, no.
Ma una storia che all'apparenza è come tante altre: quella di un ragazzo che insegue il sogno, che crede in quello che fa e che persegue con tutte le sue forze il suo obiettivo.
Ma Whiplash non è un film come tanti altri.
Per emergere, ha dovuto sudare e prepararsi, ha dovuto battersi.
Finito nel 2012 nella black list delle migliori sceneggiature non prodotte, è passato poi per un cortometraggio di soli 18 minuti, nella speranza che qualche grosso produttore lo notasse e ne permettesse la realizzazione.
La stessa fatica dovrà fare Andrew per emergere.
Batterista dotato, iscritto al duro Conservatorio Shaffer, ha una concezione di sé parecchio alta, e vuole sfruttare tutte le sue carte con l'obiettivo di diventare qualcuno da ricordare, un Buddy Rich, un Charlie Parker.
Per farlo, deve farsi notare, da Fletcher in particolare, il vero master della scuola, che con poche parole, semplici gesti e un secondo di ascolto sa capire di che stoffa sei fatto.
Andrew inizialmente ce la fa, entra nella classe dei migliori anche se per la sua famiglia non conta granché a confronto con il football, nemmeno ai suoi amici -visto che non ne ha- o alla sua presunta fidanzata, che si sente giudicata e respinta dal suo ego.
Ma poco importa a Andrew, anche perché quel posto dovrà sudarselo letteralmente, sputando sangue, anche, subendo ogni tipo di umiliazione, di rimprovero, di vessazione da una maestro che fa paura. Che non perdona.
Nessuna fortuna del principiante, nessun talento innato o aiutante magico che d'improvviso ti porta alla tua meta.
Whiplash mostra senza edulcorare nessuna pillola che se vuoi emergere, se hai le carte per emergere, devi mettere da parte ogni tentennamento, devi rischiare tutto, devi prepararti, soprattutto.
Esercitarti, suonare, andare avanti fino a che le tue mani, piene di vesciche, non ce la fanno più, finché il tuo corpo cede agli spasmi di muscoli affaticati.
Perché nel grande giorno nemmeno la banale scusa, seppur veritiera, di un incidente, di una ruota bucata, di un errore o di una dimenticanza, può essere perdonata.
Whiplash insegna anche come all'interno di una persona possa coesistere uno Stronzo con la S maiuscola (che sa così catalizzare a sé tutta l'attenzione, intimorendo con uno sguardo) e un grande maestro, di vita e di musica.
Con le sue colpe, certo, ma anche con i suoi pregi.
Così Whiplash è uno di quei film che emerge per i suoi meriti, per degli attori fisici e iconici in stato di grazia, per un montaggio e delle riprese che ti fanno entrare nel dolore, oltre che nella musica, per una colonna sonora trascinante che entra in testa, con quel finale incessante che sfonda con un'onda ogni porta e consacra già il talento di Damien Chazelle, prima di La La Land.
Ci saranno un po' troppi tecnicismi, ma c'è tanto di quel cuore, di quella forza prorompente che gli outsider sono abituati ad usare, che Whiplash raggiunge il suo obiettivo: uscendo dal mucchio, non facendosi dimenticare.
E questo è il vero lieto fine.