“Un aspetto fondamentale, a mio parere, è che un vero artista non dovrebbe cercare in alcun modo il riconoscimento o il successo commerciale, in nessuna forma”.
Lo ha detto James Smith intervistato di recente da Rumore ed è una dichiarazione che dice tutto il paradosso in cui si sono ficcati gli Yard Act.
Alla fine tutto si riduce sempre al solito, insolubile problema del rapporto tra arte e successo commerciale: un artista, per quanto possa affermare il contrario, ha bisogno di un pubblico; ma se il pubblico cresce troppo allora la sua arte si trasforma in un prodotto, in un qualcosa che può essere comprato e consumato come fosse del cibo o un capo d’abbigliamento.
E allora la domanda sorge obbligata: posto che ogni artista sogna il successo, è possibile ottenerlo senza mercificare la propria arte, mantenendo una dimensione profonda e “autentica”? Esiste una via di mezzo tra l’essere idolatrati dalla critica ma morire di fame, e il diventare delle megastar mondiali piene di soldi ma snobbati da chiunque consideri la musica una cosa seria? Per restare in Italia: meglio essere James Jonathan Clancy o i Måneskin?
Non è una domanda banale e non bisogna neanche snobbarla più di tanto, perché se guardiamo indietro, sono davvero pochi quegli act che hanno saputo unire enorme riscontro di pubblico ad indubbia qualità della proposta. E sono tutti o quasi nomi di quella età dell’oro che i fastidiosi soloni che sembrano essere la maggioranza tra chi discute di musica, continuano fastidiosamente a celebrare come se nel frattempo non fosse successo altro.
Per cui è abbastanza comprensibile che James Smith si ponga il problema e che ironizzi, nell’omonima traccia, che sì, “We Make Hits” ma non c’è nulla di cui vergognarsi.
The Overload aveva celebrato gli Yard Act come i nuovi Fall (accostamento che però, attenzione, è stato fatto praticamente per tutte le band della famigerata nuova ondata di Post Punk) ed erano state lodate soprattutto le doti di paroliere di Smith, unitamente allo stile vario e fantasioso del chitarrista Sam Shipstone. Sono stati inseriti nella stessa casella di Mark E. Smith senza pensarci troppo, tutt’al più se ne rimarcava la capacità di virare sul ritmo e sul ritornello catchy, qualora ce ne fosse bisogno.
Due anni dopo le cose sono cambiate e Where’s My Utopia potrebbe essere il disco per cui potreste sentirli citare anche dal vostro amico che non ha mai sentito nominare i Radiohead e pensa che i Queen siano la più grande band mai esistita sulla terra. Oddio, probabilmente sto esagerando ma il succo è quello, immagino.
Il penultimo brano in scaletta, “Blackpool Illuminations”, è un lungo flusso di coscienza su di una base vagamente jazzata, il lungo monologo di un uomo che racconta i weekend da bambino in compagnia della famiglia, e di come gli dessero serenità ed un grande senso di sicurezza; c’è il figlio ad ascoltarlo, questi ricordi sono rivolti a lui, anche se lo capiamo solo alla fine, per cui il racconto diviene una sorta di cammino introspettivo verso la presa di coscienza di che cosa voglia dire essere figli, di cosa comporti fare i genitori e, non da meno, quale siano le cose per cui vale davvero la pena vivere: “E per la prima volta mi sono sentito veramente libero. Con la mia bella famiglia e col lavoro dei miei sogni che non è più solo un sogno. Eppure, ora questo mi lascia perplesso. Ho raggiunto la perfezione con te. Ho raggiunto la perfezione. Allora perché cazzo mi chiedo che cosa i segaioli penseranno del secondo disco?”
Arriva così, come una vera e propria punchline, e fornisce una connotazione ulteriore ad un brano dalla maturità sorprendente, che alcuni hanno accostato al repertorio degli Arab Strap. Se il secondo album è il più difficile nella carriera di un gruppo (alcuni dicono il terzo ma pazienza) allora ecco che proprio all’interno di una delle loro composizioni più difficili e cerebrali, gli Yard Act si lasciano scappare che la nuova direzione che hanno preso potrebbe facilmente sollevare discussioni.
Eppure “Blackpool Illuminations” non è esemplificativa del nuovo corso del gruppo ma rappresenta solo un lato di esso. Quello che, schematizzando molto grossolanamente, potremmo attribuire a James Smith, con la sua concezione “totale” dell’arte ed uno sguardo profondo ed intelligente sui vari fattori della realtà, che si è sempre declinato in testi lucidi e e fuori dal comune.
Dall’altra parte c’è Ryan Needham, il bassista che ha sempre spinto verso la componente Pop del sound del quartetto, che non disdegna le melodie di facile presa e che a questo giro ha spinto ancora di più il tasto del groove, regalando un disco decisamente più ballabile del predecessore.
Non è una contrapposizione così rigida, alla fin fine sono la stessa band e non ci sono divisioni interne, però è evidente che ci siano effettivamente due anime e la dicotomia si è fatta decisamente più profonda rispetto all’esordio.
Ecco dunque che le chitarre si fanno meno aggressive, meno ricamatrici di fraseggi, e si dà invece spazio alla sezione ritmica, che si diletta con il groove sulla scorta dei vari B’52, Gang of Four e Lcd Soundsystem, punti di riferimento decisamente più presenti dei soliti Fall. E non è affatto un caso che uno dei brani più forti si chiami “We Make Hits”, ironica dichiarazione d’intenti che non solo fa il verso a James Murphy e soci, ma che nel testo va addirittura a citare This Nation’s Saving Grace, che del gruppo di Manchester è universalmente riconosciuto come il disco più accessibile; un modo ulteriore per far capire che adesso ci si muove su ben altri territori.
È un disco pieno zeppo di brani irresistibili, che flirtano con l’Hip Hop all’interno di un contesto indiscutibilmente Urban, e che puntano su ritornelli dal potenziale melodico esagerato. L’iniziale “An Illusion”, “The Undertow”, “Dream Job”, “Petroleum”, rappresentano il lato più immediato e fruibile di un disco che possiede anche una componente riflessiva e in parte sperimentale, fatto di composizioni dall’andamento più vario e fortemente incentrate sullo spoken word (“Fizzy Fish”, “Down by the Stream”, “Grifter’s Grief”, la già citata “Blackpool Illuminations”); un dualismo che avevamo però forse incontrato ricomposto negli otto minuti del singolo “The Trench Coat Museum”, uscito lo scorso anno e che probabilmente non a caso hanno scelto di non includere nel disco.
Aggiungiamo la produzione ad opera di Remi Kabala Jr. dei Gorillaz, e avremo completato il quadro di una svolta che, pur mantenendo una certa continuità con la precedente proposta della band, riuscirà senz’altro a levarle quella ormai fin troppo abusata etichetta “Post Punk” che, interpellati nello specifico, i quattro di Leeds hanno confessato di non sopportare più.
Proponeteli all’amico che guarda solo Sanremo e vediamo come va a finire.