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REVIEWSLE RECENSIONI
10/05/2024
Starsailor
Where The Wild Things Grow
Dopo l'ennesimo lungo iato, gli inglesi Starsailor tornano con un disco che non scende a patti con la nostalgia, ma che plasma il loro suono sempre riconoscibile attraverso un'esplicita volontà di rinnovamento.

Affacciatisi sulle scene musicali, insieme a Keane, Travis, Coldplay, Embrace, etc, a cavallo della seconda ondata di brit pop, gli inglesi Starsailor (nome preso in prestito da un album di Tim Buckley) esordirono all’alba del nuovo millennio con due dischi (Love Is Here del 2001 e Silence Is Easy del 2003) che ebbero un ottimo riscontro di vendite e di critica. Poi, il successo si affievolì, e dopo la pubblicazione di All The Plans (2009) la band si concesse un lungo iato, per ritornare sulle scene, nel 2017, con All This Life, un album discreto, ma un po’ troppo prevedibile.

Dopo altri sette anni, questo nuovo Where The Wild Things Grow, uscito quasi in sordina a marzo di quest’anno, presenta una band che sembra aver ritrovato l’ispirazione dei tempi migliori, quella facilità di scrittura e quel piglio melodico che aveva reso irresistibili i primi due lavori. Realizzato durante la pandemia globale e fortemente influenzato dal divorzio del leader James Walsh, Where The Wild Things Grow è un disco che non scende a patti con la nostalgia, evita di replicare pedissequamente quel suono che per qualche anno fu immediatamente riconoscibile, per cercare nuove strade espressive, che si dipartono da una sorta di crocevia sonoro fra Inghilterra e Stati Uniti, percorse con freschezza attraverso uncinanti melodie.

Che la band sia in palla, lo si capisce subito dall’opener "Into The Wild", un incipit dal vigore inaspettato, che evita clichè ed espedienti elettronici in favore di una strumentazione classicissima (chitarre e hammond) e di un andamento decisamente grintoso, che sfocia in un finale dalle acide sonorità rock gospel. Un piglio elettrico ribadito nella successiva "Heavyweight", sulla cui linea di basso pulsante battagliano organo e chitarre fuzzy, prima che il brano sfoci in un ritornello uncinante.

"After The Rain" è una ballatona struggente che si veste di un leggero abito country soul, facendo capire che la band trova ispirazione guardando anche verso l’altra sponda dell’Atlantico, cosa che, successivamente, accade nell’incedere pigro della suntuosa "Flowers" o nel jingle jangle a la Byrds di "Better Times", i cui cori da stadio chiamano in causa addirittura Bruce Springsteen.

E’ evidente che gli Starsailor cerchino un modo per evitare di replicare se stessi, per riproporsi al pubblico fuori dagli steccati del più frusto brit pop, e lo fanno con grande consapevolezza, come, ad esempio, in "Dead On The Monkey", un gioiellino che rielabora il loro sound caratteristico attraverso un moderno suono indie rock e un coinvolgente appeal radiofonico.

Poi, certo, la ballata nostalgica dal plumbeo retrogusto british resta la freccia più acuminata dell’arco della band inglese, che in tal senso, stante anche una ritrovata vitalità compositiva, non sbaglia un colpo. La title track vale da sola il prezzo del disco, e quegli accordi in minore che spingono il ritornello in uno sprofondo dolente e malinconico sono in grado di sbriciolare il cuore anche all’ascoltatore più disattento. Allo stesso modo, la conclusiva "Hanging In The Balance", punta di plettro e pianoforte, e il liquido fingerpicking di "Hard Love" sono tanto intense e sincere nella loro palpabile mestizia, da ingenerare più di una lacrima di commozione.

Sotto la guida del produttore Richard McNamara (chitarrista degli Embrace), con Where The Wild Things Grow, gli Starsailor sono riusciti a mantenersi fedeli alle proprie radici, ma allo stesso tempo hanno infuso nella loro musica una ritrovata passione e la volontà di rinnovarsi, evitando sterili tropi in odor di naftalina. Con ogni canzone della scaletta, la band inglese riafferma, oggi, il posto che gli è dovuto nel panorama musicale, dimostrando che, sebbene sia inevitabile un certo retrogusto nostalgico, il suo viaggio creativo è lungi dall'essere finito. Davvero un gradito ritorno.