Poco ma sicuro che mettersi sul suo piano perdi in partenza, se invece vai di sottrazione puoi uscire dal mucchio e magari riesci a tirar fuori qualcosa che sia quantomeno interessante. Insomma, non puoi far sempre colazione con panini spalmati di burro di arachidi, marmellata e bacon.
Più o meno quello che Solange Knowles, la sorella di, per l’appunto, ha fatto negli ultimi tre anni, prima con “A Seat At The Table”, album rivelazione del 2016, e oggi con “When I Get Home” album uscito a sorpresa e che già si candida ad essere uno dei migliori del 2019.
Innanzitutto, qui dentro c’è la traccia di come il soul e l’r’n’b devono evolvere per non morire di troppo revival e già così potremmo accontentarci. Ma da ascoltatori esigenti non ci limiteremo a questo ma andremo avanti sviscerando tutto quello che il disco ci mette sul piatto.
Partiamo col dire che questo album è una sfida: vi sfida ad abbattere i muri che costruite nella vostra testa, vi sfida ad abbandonare le convenzioni e le convinzioni, vi sprona a saltare il guado dei generi musicali codificati in tante caselline stagne. Quindi prendetevi tutto il tempo necessario e non fermatevi al primo ascolto, “When I Get Home” richiede tempo ed energie mentali.
Come fu per il primo album di D’Angelo, che riscrisse i canoni dell’r’n’b per gli anni a venire, anche in questo caso ci troviamo davanti ad un nuovo punto di partenza, un nuovo anno zero per il genere.
Scevra da nostalgie assortite, Solange si è circondata di alcuni tra i più influenti musicisti e produttori della scena black, tra gli altri troviamo Pharrell Williams, Panda Bear, Dev Hynes / Blood Orange, Standing in the Corner, Earl Sweatshirt, Playboi Carti, Tyler the Creator, Metro Boomin, The Dream, Gucci Mane, Sampha, che furbescamente la nostra ha tenuto sottotraccia, come se tanto sfarzo di nomi non avessero a snaturarne il progetto.
Un album strutturato come un concept ma che propriamente non lo è, fa da filo conduttore lo “Houston State Of Mind” della cantante afroamericana, il riavvolgimento del filo della propria infanzia e del quartiere della città texana dove ella ha vissuto, facendolo diventare come il paradigma e il racconto di tutta la comunità nera d’America.
Musicalmente ci troviamo immersi in canzoni che niente lasciano all’immediatezza e alla strofa orecchiabile, se non per due pezzi, “Stay Flo” e “Almeda”. Diciannove brani per trentanove minuti inframezzati da sei interludi; scava scava e comunque dopo ripetuti ascolti, quello che emerge dall’album è la ricerca fatta per estrapolare tutto il meglio della musica black del secolo scorso riaggiornata per questa fine di decennio: prestate attenzione e dentro ci troverete lo Stevie Wonder più psichedelico, il jazz cosmico e le atmosfere in quota Erikah Badu. La contemporaneità è data da suggestioni sonore a cavallo tra il jazz di personaggi come Robert Glasper più che alla irruenza di un Kamasi Washington e ai beat della Trap, come possiamo ascoltare nella già citata “Almeda”. L’hip hop è presente in “My Skin My Logo” brano che snocciola un tormentone di frasi che Solange dedica a Gucci Manè, giocando di rimandi tra il moniker dell’artista e la griffe di moda e concedendo allo stesso di rappare sulla canzone.
Un album, questo “When I Get Home”, che si snoda come un rituale di approfondimento del pensiero, un mantra di sonorità sintetiche e di frasi ripetute come ad esempio nell’iniziale “Things I Imagine”, nessun cedimento al pezzo da classifica ed anche questo è un pregio, Solange come una novella Joni Mitchell in versione r’n’b del ventunesimo secolo; spero che mi perdonerete l’accostamento che a qualcuno potrà sembrare blasfemo, ma questo è quanto il disco mi ha trasmesso.
Non fate l’errore di considerarla roba noiosa, non si vive solo di chitarre.