A dicembre i Dinosaur Jr. hanno tenuto una serie di concerti alla Music Hall di Williamsburg, a Brooklyn, dove hanno suonato interamente Where You Been nel trentennale della sua pubblicazione, raggiunti sul palco ogni sera da ospiti diversi. Ho guardato tre di quegli show (sono stati trasmessi da nugs.net) e, al di là dell’emozione sempre grande che si prova nel veder suonare il trio del Massachusetts, anche con la fredda mediazione di un monitor, a folgorarmi è stata soprattutto una versione fiume di “Cortez the Killer” suonata assieme a Warren Haynes. Accostamento di per sé senza senso, ma ad ascoltare quello che i due chitarristi hanno combinato sul classico di Neil Young c’era da da non crederci. J Mascis e Warren Haynes non potrebbero essere più agli antipodi, così come l’Indie Rock rumoroso del primo non sembra avere alcun punto di contatto con l’eredità dell’Allman Brothers Band raccolta dal secondo coi suoi Gov’t Mule.
In realtà, se c’è una verità che questi concerti e questa Jam Session hanno comunicato, è che il leader dei Dinosaur Jr. può ormai tranquillamente essere considerato un’icona della musica americana. Non che gli interessi più di tanto (anche se la celebrazione del suo disco più importante qualche indicazione la dà), siamo semplicemente nel campo dei dati di fatto.
E forse, con le elezioni alle porte, più di un americano sta pensando a quella famosa canzone dei Sonic Youth che immaginava una “Daydream Nation” di cui proprio J Mascis fosse il Presidente: eravamo nel 1988 e oggi sembrerebbe che il cantante e chitarrista sia divenuto l’eroe personale di molte più persone.
Lui, dicevamo, se ne frega, sempre più uguale a se stesso, ma allo stesso tempo sempre convincente in maniera inappellabile. What Do We Do Now arriva a oltre cinque anni di distanza da Elastic Days, ad arricchire una discografia solista che non è abbondante come quella con la band ma che ha tuttavia regalato parecchi motivi d’interesse.
La formula, inutile dirlo, è sempre quella, e se la copertina di un disco è in qualche modo indizio del suo contenuto, allora queste due lontre a caccia di pesci, così meravigliosamente indolenti e allo stesso tempo così sul pezzo, appaiono un’allegoria simpatica e vagamente nonsense dell’autore di queste canzoni.
Canzoni che a questo giro sono suonate dal solo Mascis, che si è occupato anche di tutte le parti di basso e batteria, con l’aiuto degli ottimi Matthew “Doc” Dunn (Pedal Steel) e Ken Maiuri (piano), entrambi suoi collaboratori di vecchia data (Maiuri aveva suonato anche su Elastic Days e Tied to a Star).
Questa veste più scarna rende i brani meno aggressivi e rumorosi (le chitarre ritmiche sono sempre acustiche o pulite, mentre il piano fa il suo nel processo di alleggerimento) ma sempre molto dinamiche, visto che la batteria fa un bel lavoro. Risaltano ancora di più le melodie che, non più sommerse da tonnellate di feedback e distorsioni, hanno modo di dispiegarsi appieno, come del resto avviene sempre col Mascis solista.
C’è un’atmosfera a metà tra il disincanto e la malinconia, con ballate che non sembrano propriamente ballate, e che paiono riflettere sul mistero e sull’ambiguità dell’esistenza, senza tuttavia rischiare di prendersi troppo sul serio. Sono più o meno tutte uguali ma (è un dato sempre più inspiegabile e che va osservato ogni qual volta abbiamo a che fare con un suo nuovo lavoro) sono tutte bellissime. Come faccia il suo autore a scrivere sempre lo stesso pezzo e a scriverlo sempre in maniera tale da non annoiare ma, anzi, a farci sempre trovare un qualche motivo di entusiasmo, è una roba che non capirò mai, ma che è indiscutibilmente parte di ciò che rende J Mascis quel personaggio pazzesco di cui sopra.
E poi ci sono gli assoli, con quella chitarra fragorosa e letale, che entra proprio tutte le volte in cui ti immagini che lo farà, a sottolineare quanto appena cantato nel pezzo e a regalare scampoli di una bellezza che pensiamo sempre di conoscere a memoria e che invece ogni volta riesce ancora a sorprenderci.
Citare un brano piuttosto che un altro non pare un’operazione molto utile, ma forse si potrebbe fare un’eccezione per l’iniziale “Can’t Believe We’re Here”, perfetta per capire che tipo di disco abbiamo di fronte (giusto per quelli che fossero stati su Marte negli ultimi decenni) e per, meglio ancora, la conclusiva “End is Getting Shaky”, più meditativa del solito, canzone d’amore che forse non parla propriamente d’amore, fulgido esempio di colui che è semplicemente uno dei più grandi songwriter che ci sia in giro, anche se siamo sempre in pochi a sostenerlo apertamente.
In attesa del ritorno dei Dinosaur Jr., un grande disco con cui rifarsi le orecchie.