Anche questa sera tocca scegliere tra tre concerti diversi. Vivere a Milano e dintorni sta diventando molto simile all’essere immersi costantemente in un unico grande festival. Capisco che non sia elegante lamentarsi, soprattutto nei confronti di chi abita in zone d’Italia raramente o mai toccate da eventi musicali, ma è anche vero che un modello simile, frutto evidentemente della frenesia con cui si è voluti a tutti i costi ripartire dopo la pandemia, non sia sostenibile sul lungo periodo.
Detto questo, in una serata che offriva sul piatto Afghan Whigs, Nilüfer Yanya e Wet Leg, tutti e tre già visti dal vivo, ho optato per queste ultime. Il motivo? Principalmente la voglia di seguire la contemporaneità di una band in evidente ascesa, al centro dell’hype come raramente un esordiente ha avuto modo di essere negli ultimi anni. È stata una scelta dettata dalla mia passione per la musica e dal desiderio di comprenderne le dinamiche e le evoluzioni storiche: se avessi scelto col cuore, avrei molto probabilmente fatto altro.
Terminata questa parte autobiografica (ci cui immagino non sia fregato niente a nessuno) cerchiamo di venire al dunque. Le due ragazze dell’Isola di Wight hanno conquistato critica e pubblico in tempi rapidissimi e con una sola canzone, quella “Chaise Longue” che ha spopolato un po’ ovunque, facendo gridare al miracolo, aprendo loro da subito le porte dei festival più importanti e creando un senso di aspettativa per il disco di debutto che, davvero, non si vedeva da diverso tempo. Ripeto, difficile che nell’epoca odierna si vengano a creare fenomeni anche solo paragonabili ai grandi artisti degli anni ’80 e ’90, ma era probabilmente dai tempi dell’esordio degli Arctic Monkeys che non si registrava un tale movimento attorno ad una band.
Tutto giustificato, questo entusiasmo? Se ne è discusso molto, in questi ultimi mesi, e io personalmente credo che lo sia, almeno in parte. “Chaise Longue” è oggettivamente una hit, un brano dove tutto funziona dalla prima all’ultima nota, travolgente nelle dinamiche e nella melodia, con quel riff centrale di chitarra che è la cosa più banale e allo stesso tempo più indovinata che si potesse escogitare a livello di hook vincenti. Recentemente l’hanno coverizzata i Pearl Jam e credo che questo sia un dato non indifferente, per certificare l’impatto di un certo brano sul mondo contemporaneo (vi ricordate quando Springsteen rifece “Royals” di Lorde durante un suo concerto in Nuova Zelanda?).
Non c’è comunque solo quella: i singoli successivi e poi l’uscita del disco vero e proprio, ad aprile, hanno certificato un duo che ha una certa capacità di mettere assieme canzoni semplici e accattivanti, sfruttando in maniera efficace stilemi ultrascontati. Ci sono 12 brani, su Wet Leg, e almeno 5 di questi sono sullo stesso livello di “Chaise Longue”; il resto, pur non facendo gridare al miracolo, è comunque ad un livello più che buono. Riconosco gli argomenti di chi prova a sminuirle, ma credo sia più corretto osservare con attenzione che cosa combineranno in futuro.
Il pubblico italiano, ad ogni modo, ha scelto di esserci: i Magazzini Generali, scelta indubbiamente cauta degli organizzatori, sono imballati come non mai. Vero che parte del pubblico parla inglese (cosa che negli ultimi tempi sembra accadere sempre più spesso) ma vero altrettanto che il fenomeno Wet Leg, seppure con numeri di gran lunga inferiori, sembra aver attecchito anche da noi.
In apertura (alle 20.25, orario insolito ma straordinariamente gradito) ecco arrivare i Coach Party, anche loro dall’Isola di Wight, anche loro con un esordio pubblicato in aprile, in questo caso l’EP Nothing is Real.
Il quartetto, capitanato da una simpatica e vivace Jess Eastwood, propone un Indie Rock dalla forte componente Punk e per una mezz’ora scarsa preparano l’atmosfera per gli headliner scaldando a dovere il pubblico. Set divertente, per carità, ma del tutto privo di canzoni degne di essere riascoltate. Trascurabili, direi che è l’aggettivo che meglio li definisce.
Le Wet Leg si presentano sul palco sulle note di una breve intro dall’insolito sapore celtico, in stile colonna sonora di James Horner, prendono posizione e attaccano senza troppi fronzoli con “Being in Love”. I suoni sono per fortuna migliori rispetto a quando le vidi in giugno al Primavera, e anche il fatto di essere in un piccolo club, piuttosto che all’aperto sotto il sole cocente, ha rappresentato un altro fattore di miglioramento.
La cosa che si nota subito è che Rhian Teasdale ed Hester Chambers, pur indiscusse protagoniste dello show, non ne sono in realtà le principali artefici. La prima canta e imbraccia una chitarra da cui ogni tanto cava gli accordi principali del pezzo, la seconda è molto più defilata, si produce in qualche seconda voce e suona decisamente meno della sua collega, rimanendo quasi sempre in secondo piano, quasi a volersi nascondere (a Barcellona mi era invece sembrata più presente ma forse ricordo male).
Il grosso del concerto è tenuto in piedi dalla backing band, un trio composto dal chitarrista e tastierista Josh Omead Mobaraki, dal bassista Ellis Durand e dal batterista Henry Holmes. Questo non per dire che le titolari del marchio non abbiano meriti, perché dopotutto i pezzi li scrivono loro, ma che per quanto riguarda la performance in sé, la sostanza è nelle mani di altri, loro si accontentano di metterci la faccia, peraltro con una presenza scenica da migliorare.
Concerto piacevole ed esibizione compatta, con i brani del disco a rendere benissimo, soprattutto quelli di più forte impatto (“Wet Dream”, “Oh No”, “Ur Mum”, “Angelica”) ma con una certa attenzione anche alle atmosfere più soffuse, come nella romantica “Convincing”. Gradita è poi la presenza di “Piece of Shit”, quasi mai suonata nelle date precedenti, mentre ad arricchire la setlist arrivano ben quattro nuovi brani, testimonianza del fatto che i lavori sul secondo disco sono già ben avviati e, soprattutto, prima importante indicazione sulle loro possibilità future. Da un primo ascolto il materiale sembra interessante, soprattutto “I Want to Be Abducted (by a UFO)”, molto coinvolgente nel ritmo e con un bel ritornello che entra subito in testa, mentre “Red Eggs” e “Obvious”, pur piacevoli, danno un po’ una sensazione di déjà vu. Sorprende invece “It’s a Shame”, lenta e piuttosto scura nella parte iniziale, con un interessante cambio d’intenzione nel mezzo, che le fa prendere una piega più rockeggiante. Insomma, ci sono elementi sufficienti per dire che ne potrebbe uscire un buon lavoro.
Ovviamente il pezzo forte è costituito da “Chaise Longue”, accompagnata da una straordinaria partecipazione del pubblico, che peraltro ha saltato e pogato in abbondanza per tutta la durata del set. Se ne vanno così, dopo neanche un’ora e nessun bis, portandosi dietro una porzione di lasagne che, se non ho capito male, qualcuno dalle prime file ha regalato loro. Che non potessero suonare più di tanto, avendo un repertorio così ridotto, era abbastanza prevedibile, ma se non altro avrebbero potuto evitare di cazzeggiare eccessivamente tra un brano e l’altro, occupando tempo prezioso con commenti e battute superflue che hanno fatto perdere un po’ di fluidità all’insieme, quando avrebbero piuttosto potuto eseguire quei brani del disco che hanno invece deciso di lasciare fuori (“I Don’t Wanna Go Out” e “Loving You”).
Un bel concerto, che conferma le Wet Leg come un act meritevole di attenzione, pur tenendo presente che siamo davanti ad una proposta niente più che derivativa.
Photo Credit: Lino Brunetti