Cosa vuol dire e cosa è il “pop ipnagogico”, quel genere partorito da personaggi come Ariel Pink e Toro Y Moi? Dunque, a grandi linee il pop ipnagogico può essere definito come l'estrema forma di post-modernismo e di retrofuturismo, di tutte quelle canzoni che giravano in primis nelle FM station americane degli anni 70 e che gli artisti che adesso ne fanno il loro credo le ascoltavano per caso in casa dei propri genitori o arrivavano loro dalle stanze dei vicini. Tutti questi suoni sono rimasti nell'inconscio di quegli artisti che adesso li stanno ritirando fuori in forma di canzoni bislacche e genialoidi, come una sorta di paella sonora che mischia generi assai diversi tra loro. Ben diverso è invece il caso del primo lavoro su lunga distanza degli Young Gun Silver Fox, acronimo usato da Andy Platts e Shawn Lee, i due musicisti che stanno dietro al progetto che ha licenziato "West End Coast", album uscito a fine 2015 per la label tedesca Légère Recordings. Loro due, più che nell'inconscio, hanno assorbito quei suoni nel proprio subconscio e questo disco ne è il suo naturale svolgimento.
Platts e Lee non sono degli sconosciuti, anzi: il primo è il leader, compositore e produttore dei Mama's Gun, band dedita al recupero del pop più arguto che girava negli anni settanta, il secondo è il responsabile del progetto Shawn Lee's Ping Pong Orchestra, band strumentale le cui chicche sonore probabilmente le avete inconsapevolmente ascoltate in numerose serie Tv, come ad esempio Lost e Desperate Housewives, oppure sul grande schermo, Oceans 13 il primo film che mi sovviene, ma anche nelle pubblicità, BMW e Jaguar in primis.
"West End Coast" è un viaggio dentro la musica della west-coast con tutte le derivazioni che questo genere ha saputo costruirsi negli anni. Si parte con "You Can Feel It", il singolo estratto dall'album, e si mettono subito le cose in chiaro: qui la parte del leone la fanno le armonie vocali e il pop che band come gli America, i primi, quelli di " Homecoming", seppero ben sintetizzare dai maestri del genere. Anche il secondo pezzo, "Emilia", va in questa direzione, nonostante le voci incomincino a pendere in direzione Doobie Brothers e nonostante un assolo di chitarra, ad inizio e metà canzone, un po' straniante. Dalla “westcoast pop” più cristallina, con il terzo brano, " Better", comincia il lavorio che ci porta in territorio black: qui abbiamo una ritmica dagli aromi giamaicani che poi si sublima in una ballata soul, al punto da farmi ricordare una delle più misconosciute band di tutti i tempi, i Faragher Brothers.
Con "Distant Beetween Us" ci troviamo davanti ad una delle vette del disco: qui tutto è perfetto, una sintesi estrema di melodia pop, con l'intro che ricorda "Baby Come Back" dei Player, innerbata nelle voci e nel refrain dal blues eyed soul in stile Hall & Oates, fino ad approdare al Philly Sound del bridge orchestrale: bellissima.
La successiva "See Me Slumber" è un'altra genialata: a farla da padrone questa volta sono le atmosfere alla Doobie's - ma immaginateli come se la band di Michael Mc Donald fosse stata inglese invece che americana - un magistrale incastro di pop british e soul americano.
Il lato due del disco si apre con il pop dalle reminiscenze orientali di "In My Pocket", che ci porta dritti in bocca al soul funk bianco di "So Bad", un altro must dell'album con AWB e Attitude come punti di riferimento. In "Saturday" fa invece capolino il Michael Mc Donald post Doobie's, una bella canzone dall'andamento nervoso e dal ritornello che si stampa in testa. In "Spiral", penultima canzone dell'album, è ancora protagonista il pop suadente che aleggiava nelle FM station americane di fine anni settanta, preludio al gran finale: "Long Way Back", una ballatona malinconica che improvvisamente prende il volo e, accompagnata da una chitarra in stile Isley Brothers, se ne va nell'empireo del soul più trascendentale.
Cos'altro dire: questo disco me lo sono letteralmente mandato a memoria e semplicemente non vedo l'ora che ne esca un altro.