Irriverenti, caotici, frenetici, ossessivi e quasi beffardamente cacofonici nella profonda e perseverante mescolanza tra quello che è il migliore post-punk inglese, fatto di riff striscianti, testi ironici, ma anche irrefrenabili ritmi synth-punk, e quello che è uno stile e un’attitudine jazz, densa di sassofoni striduli e lunghe jam session strumentali, improvvisate e trascinate.
I Viagra Boys contano nella loro formazione cinque elementi (Sebastian Murphy alla voce, Henrik Höckert al basso, Benjamin Vallé alla chitarra, Sol Tor Sjödén alla batteria e Oskar Karls al sax) e nascono a Stoccolma nel 2015, con un nome che scaturisce dall’intento di ridicolizzare il concetto misogino e virile di mascolinità. L’ironia e la sardonica sfida al buonsenso e al buoncostume, però, non si fermano qui, affollando i loro testi di sfacciate prese in giro a ogni conformismo e a ogni desiderio di adeguato inserimento nella società. Basti pensare a “Sports”, singolo di punta del primo acclamato album Street Worms (2018), il cui video descrive meglio di tante altre parole la loro opinione sull’obbligo sociale maschile all’interesse negli sport. E questo per non citare anche gli ottimi EP precedenti, a partire dal primo Consistency of Energy (2016), in cui in canzoni come “Research Chemicals” si affronta da subito anche un altro dei temi ricorrenti della band, quello della dipendenza da sostanze.
Le atmosfere irrequiete, lisergiche, selvagge e talvolta quasi psichedeliche si devono all’ottimo lavoro di Henrik, Benjamin, Sol e Oskar, i quali creano sonorità originali ed eterogenee, che possono essere ricondotte all’odierno e celebrato post-punk inglese (vedi gli Idles) solamente nel momento in cui si prende in considerazione alcuni dei singoli. Affrontati e ascoltati nel loro complesso, invece, le influenze dei Viagra Boys divengono immediatamente più ampie e sfaccettate: il jazz, la new-wave dei synth, la follia dadaista dei Devo, e il country. Già, perché il piccolo Sebastian Murphy, quando ancora non era un pazzo con tatuata in fronte la parola lös (tra i cui significati dallo svedese troviamo: moscio, flaccido, lento e sciolto), annoverava tre quarti dei suoi ascolti nella sola musica country.
E se nei precedenti lavori c’era molto più post-punk e un buon contorno di jazz e new-wave, con questo secondo Welfare Jazz, se escludiamo la meravigliosa opener (e primo singolo) “Ain’t Nice”, in cui la band regala ai suoi fan tutto quello che potevano aspettarsi e desiderare, con il resto del disco i cinque svedesi mandano tutti allegramente a quel paese, sperimentando a più non posso e ampliando ancora di più tutte le piste di lavoro in cui avevano voglia di cimentarsi. Tracce strumentali, tracce recitate, synth danzerecci, brani più cupi e introspettivi e un inatteso finale con una cover/tributo al country di John Prine, “In Spite of Ourselves”, un inno alle relazioni strambe, stravaganti, apparentemente terribili ma comunque innamorate, cantata in botta e risposta con Amy Taylor di Amyl & The Sniffers.
Se tutto questo vi sembra un accozzaglia un po’ troppo eterogenea ed estrema di stili, influenze e attitudini, sappiate che non è finita qui. Questo perché all’interno del sophomore dei Viagra Boys dobbiamo considerare anche i testi. Certo, anche questa volta contemplano il marchio di fabbrica della sopracitata allegra irriverenza anti-sociale (vedi la bellissima “Girls & Boys”, in cui in poche e lapidarie parole si descrive la triste realtà vissuta da molti ragazzi da discoteca: «Ragazze, loro cercano sempre di legarmi; Ragazzi, loro vogliono uscire in città; Droghe, l'unico modo in cui posso ballare; Amore, qualcosa di cui non so niente»), ma nel caso di Welfare Jazz spingono ulteriormente sull’acceleratore, e in due direzioni (nemmeno a dirlo) apparentemente opposte.
Nelle parole di Murphy, infatti, da un lato troviamo l’estrema surrealtà, giocata su nonsense e dadaismi, spesso popolati da animali totem come i polli, i gamberetti (onnipresenti nei live set, ormai soprannominati tutti Shrimp Sessions) ma soprattutto dai cani, che in questo album troviamo quasi in ogni canzone, e spesso con il bizzarro ruolo di agenti segreti o di coloro che tutto sanno e osservano.
Dall’altro lato troviamo anche una cupezza prima mai così evidente, perché Welfare Jazz è anche la narrazione di un doloroso processo di evoluzione personale: quello che ha portato Murphy a rendersi conto che dopo tre o quattro anni di droghe e ossessioni malsane, che non hanno fatto altro che fargli rovinare da solo la relazione con la sua ex-fidanzata e renderlo una persona sempre peggiore e sconclusionata, era il caso di smetterla di dire “io sono fatto così, chi se ne importa”, rendersi conto che stava solo accumulando rimpianti e scelte sbagliate e prendere la sua vita in mano.
Ed è in questa chiave di lettura, personale, sarcastica e sincera, che possiamo leggere tutti i testi di Murphy: canzoni come “Ain’t Nice”, che sintetizza il suo essere stato una persona orribile su troppi fronti; “Creatures”, che descrive la sensazione di vivere una vita sott’acqua, non respirando ma procedendo come annebbiato un giorno dopo l’altro; o “Into The Sun”, che delinea il rimpianto e il desiderio di redenzione; ma anche canzoni più folli come “Secret Canine Agent”, che gioca sulle paranoie, le poesie e gli assurdi viaggi mentali che ha avuto nel corso dei suoi deliri allucinati. Questo fino ad arrivare alla bellissima “To The Country”, in cui abbandona ogni ironia e confessa il suo desiderio da uomo ancora superbamente folle ma ormai lucido e padrone di sé: trasferirsi in campagna e avere un mucchio di cani, stare con la sua (attuale) ragazza e andare a pescare, facendo musica assieme alla sua band ogni paio di settimane.
Sebastian Murphy e i suoi Viagra Boys hanno realizzato un album variegato ma coerente, ironicamente sperimentale, sottilmente strambo e sgangherato, al tempo stesso stupido, triste, bizzarro, allegro, denso e cupo.
I cinque svedesi si sono dimostrati, anche e soprattutto con questo secondo lavoro, degli artisti: alla faccia delle mode, delle attese e della ricerca delle soluzioni più orecchiabili e scontate, hanno perseguito la loro volontà artistica. Insomma, un po’ la stessa attitudine di chi in Svezia fa “welfare jazz” (ovvero fa concerti di jazz gratuiti che, non potendo ricevere entrate dai biglietti, ricevono i soldi direttamente dal governo svedese), ma con una quota decisamente più elevata di sarcasmo.
Un album che non digerirete al primo, al secondo o al terzo ascolto, ma che ad un certo punto vi renderete conto che scivola come seta e… ops, è già iniziato di nuovo? Ma quante volte l’ho già sentito? Che diavolo, certo che voglio farmi ancora un giro!