Tutti abbiamo il nostro vicinato. È composto dalle persone che abitano accanto a noi, da coloro che frequentano il nostro quartiere, dall’atmosfera che respiriamo quando ci passeggiamo, dalle aspettative e dalle opportunità che ci dà e dalle dinamiche a cui ci condanna. In alcuni casi sono dei circoli virtuosi, in altri viziosi. Ma se lo pensiamo su una scala più ampia, il nostro vicinato è fatto anche dagli “amici” di cui ci circondiamo su Facebook, dalle persone che seguiamo su Twitter o Instagram e dai programmi che seguiamo in tv, che ci influenzano inevitabilmente e che creano il panorama culturale, oltre che sociale, in cui siamo immersi.
E qui vi sfido a pensare che tutto intorno a voi fili così liscio.
Ingiustizie, privazioni, antipatie, risentimenti, povertà, dipendenze e quella sensazione di non poter mai sfuggire del tutto da una situazione in cui, il più delle volte, non si sa nemmeno di esserci.
Welcome to the Neighborhood parla di tutto questo e non solo, utilizzando Blackpool, la città natale del gruppo, come metafora di una situazione più ampia.
Henry Cox, nei suoi testi, canta alla sua generazione con il cuore in mano e l’anima un po’ rotta. Una generazione finanziariamente e culturalmente sterile, che non può permettersi una casa, è spesso senza lavoro, paga il prezzo degli errori di chi li ha preceduti, ma al tempo stesso è pigra e distratta, annoiata e ansiosa, chiusa in se stessa e arroccata dentro i propri confini.
«Da nessuna parte (è dove sto andando). Da nessuna parte (perché non ho niente). Da nessuna parte (fammi avere qualcosa). Da nessuna parte (perché non ho niente). Dammi qualcosa da fare / dammi un lavoro. Dammi qualcosa da dimostrare / dammi un cuore. Dammi una morale / dammi un’anima. Dammi un po' di alcol a buon mercato e mettimi in prigione» (“Funeral Party”).
«Una terra di fango, il sapore del sangue. […] Non penso di riconoscere questo pazzo mondo in cui sono. Seppelliscimi.» (“England’s Dreaming”).
«Voglio solo essere qualcuno. Voglio solo essere qualcosa. Non dirò mai scusa, perché non sarò mai libero. Vola come una farfalla. Pungi come un'ape. Sei ovunque vado. Mi stai sempre guardando. Porta l’inferno fuori dalla mia testa» (“Bad Machine”).
Ma al netto del significato denso e claustrofobico, è a livello sonoro che questi cinque ragazzi inglesi fanno il vero salto di qualità. Dopo due anni di tour, hanno avuto il coraggio di spingersi oltre il sentiero tracciato con i lavori precedenti. Si sono riascoltati su album e dal vivo e hanno capito che suono volevano raggiungere: prima scrivendo on the road, poi vivendo insieme per un mese, e infine facendosi aiutare nella produzione da Mike Sapone (Brand New, Taking Back Sunday, Mayday Parade, Motion City Soundtrack, Public Enemy), di modo da trovare i toni e i colori che danno all'album la sua identità.
Un processo di elaborazione delle proprie sonorità che li ha portati sia a ricordare gli ascolti dell’adolescenza (Deftones, Korn, Nine Inch Nails) per incorporare più elettronica, sia a lavorare sul pathos guardando molti film in sordina (Kubrick, Ridley Scott) e provando ad adattare il tono della chitarra o una frase per adattarla alla scena.
Il tutto per strutturare un concept ben orchestrato, popolato di chitarre e batterie, ma atmosferico e immaginifico nei momenti giusti.
Le canzoni più convincenti? “Bad Machine” e “England’s Dreaming” su tutte, ma da non dimenticare neppure “Funeral Party” e “Halo”.
In sintesi? Un album da non perdere per le notti insonni, i momenti di riflessione amara e la volontà di guardare al mondo che si ha intorno, dentro e fuori di sé. Ancora meglio se poi, alla fine dei 44 minuti di ascolto, quel mondo avrete anche voglia di contribuire a cambiarlo.