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REVIEWSLE RECENSIONI
24/05/2022
Arcade Fire
WE
A cinque anni dal controverso “Everything Now” gli Arcade Fire tornano con “WE”, un disco di sintesi nel quale convivono con successo la furia romantica dei primi lavori e le più recenti sperimentazioni elettroniche.

A pensarci bene, non è difficile rintracciare delle similitudini tra le discografie di Arcade Fire e U2. In Funeral, i canadesi hanno raccontato la perdita dell’innocenza con lo stesso candore degli U2 di Boy e The Unforgettable Fire, mentre in Neon Bible è presente la stessa forza cinematica di The Joshua Tree. E se per gli Arcade Fire The Suburbs è stato il disco della svolta come lo è stato Actung Baby per gli U2 vent’anni prima, allora è scontato vedere in Reflektor il corrispettivo di Zooropa, con i canadesi intenti a espandere il loro vocabolario sonoro nel tentativo di far convivere – spesso riuscendoci – Bruce Springsteen e LCD Soundystem.

Molte anche le affinità tra Everything Now degli Arcade Fire e Pop degli U2. Entrambi musicalmente ambiziosi ed estremamente critici nei confronti della società, non hanno però intercettato il favore di pubblico e critica, segnando il primo vero punto d’arresto di due carriere fino a quel momento inarrestabili. Ventidue anni fa, Bono & Co. risposero “riportando tutto a casa” con All That You Can’t Leave Behind, un lavoro che cercava di ricreare in vitro l’album degli U2 perfetto (in realtà mai esistito); stessa operazione intrapresa ora da Régine Chassagne, Win Butler, Richard Reed Parry, Tim Kingsbury, Jeremy Gara e Will Butler (al suo ultimo disco con la band) con WE. Qui, infatti, il collettivo canadese torna solo all’apparenza alle origini, perché se è vero che gli elementi cardinali del loro sound sono tutti formalmente al proprio posto, è altrettanto vero che nessun disco degli Arcade Fire ha mai effettivamente suonato così.

Il motivo è presto detto: in WE il feroce romanticismo di Funeral e la furia apocalittica di Neon Bible trovano il perfetto terreno di sintesi con le sperimentazioni elettroniche di The Suburbs e Reflektor, soprattutto grazie al sapiente lavoro di un veterano come Nigel Goodrich, collaboratore di lunga data dei Radiohead e produttore di Beck, Air, Paul McCartney e Roger Waters. Le sue razionali architetture sonore danno al disco un suono algido e asciutto, lontano da quello caldo e casalingo degli album più celebri della band. Quello che resta, però, è il cuore degli Arcade Fire: la scrittura passionale e appassionata di Win e l’innocenza fanciullesca e naïf di Régine.

Registrato a El Paso (Texas) durante la prima ondata di Covid-19 in uno studio di registrazione prospiciente al muro che separa gli Stati Uniti con il Messico, WE è una riflessione sull’ultimo quinquennio, caratterizzato da sconvolgimenti politici e sociali,  ambientali e sanitari, dalla presidenza Trump alla discutibile gestione della pandemia, passando per la sempre attuale emergenza climatica. Scottati dalla (fin troppo) ingenerosa accoglienza riservata a Everything Now, gli Arcade Fire in questi anni sono rimasti lontani dalle scene (l’unica eccezione è stata l’ospitata al Late Show di Stephen Colbert durante la puntata dedicata alle elezioni presidenziali, dove hanno suonato “Generation A”), con Win e Régine impegnati nella sessione di scrittura più lunga della loro carriera, che ha permesso loro di accumulare materiale per almeno tre album.

Con un titolo (Noi, Fanucci 2021) ispirato all’omonimo romanzo distopico dello scrittore russo Evgenij Ivanovi? Zamjatin (1884-1937), già fonte d’ispirazione anche per Il mondo nuovo di Aldous Huxley e 1984 di George Orwell, WE è composto da sette tracce (10 nella versione digitale) divise in due parti. La prima, “I”, comprende le due “Age of Anxiety” e la suite in quattro movimenti “End of the Empire”; mentre la seconda, “WE”, prende il via con “The Lightning I, II”, prosegue con le due “Unconditional” e finisce con la title track. La divisione tematica crea così una ponderata progressione dalla prima persona singolare delle prime canzoni, isolata e paurosa, alla pluralità più calda e ottimista della seconda metà: ciò si riflette anche nella musica, che da ansiogena e claustrofobica diventa via via più calda, aperta e colma di speranza.

Con l’aiuto di parenti (la mamma di Win e Will, Liza Rey, figlia del jazzista Alvino Rey) e amici vecchi (Owen Pallett, Sarah Neufeld, Steve Mackey dei Pulp, Geoff Barrow dei Portished) e nuovi (Peter Gabriel, Josh Tillman/Father John Misty), gli Arcade Fire riescono nell’impresa di far convivere sotto lo stesso tetto tutte le ere musicali della band, dall’intima epicità di Funeral all’elettronica danzereccia di Reflektor. Con la differenza che quest’ultima non è più la pietra fondante, ma retrocede a elemento decorativo, come fosse una pennellata ben riuscita nel loro affresco sonoro. Ecco quindi che “Age of Anxiety I” e “Age of Anxiety II (Rabbit Hole)” prendono il via come ballate pianistiche per poi svilupparsi rispettivamente come un pezzo dei New Order e degli LCD Soundystem. Stesso discorso anche per “Unconditional II (Race and Religion)”, che sposa musica etnica ed elettronica alla maniera di Peter Gabriel (tanto che il suo cameo vocale è la proverbiale ciliegina sulla torta), con un’atmosfera a metà strada tra le claustrofobie evocate da Peter Gabriel 3: Melt e le aperture pop di So.

E se il brano “The Lightning I, II” è forse quello più vicino al loro canone, soprattutto nella seconda parte, è interessante notare come nel primo segmento siano però presenti alcuni inserti di classic rock, su tutti la chitarra acustica che cita “Pinball Wizard” degli Who. Ma non è l’unico caso, dal momento che la lunga e articolata “End of the Empire I-IV” inizia come un pezzo di Roger Waters, prosegue chiamando in causa il David Bowie glam di Honky Dory e Ziggy Stardust e si conclude a metà strada tra i Beatles della seconda facciata di Abbey Road e i Radiohead di “Paranoid Android”. Menzione d’onore anche per il folk solare di “Unconditional I (Lookout Kid)”, dedicata al figlio di Win e Régine, e la conclusiva “WE”, costruita su un impercettibile accumulo sonoro in vista di un climax volutamente negato.

Tornando al parallelismo iniziale, come All That You Can’t Leave Behind per gli U2, anche in WE per la prima volta non si registra nessuna marcata evoluzione sonora degli Arcade Fire. Il risultato è quindi un meraviglioso lavoro di mestiere, con canzoni di cui ci si innamora più per il loro valore estrinseco che per quello intrinseco, più per come suonano e come sono costruite piuttosto che per l’urgenza che esprimono. Questa non è necessariamente una cosa negativa, fa semplicemente parte del percorso di ogni artista con una carriera longeva come quella degli Arcade Fire. Poco male, perché chi scoprirà la band oggi per la prima volta, potrà ascoltare uno dei suoi lavori più convincenti, mentre chi è rimasto deluso dalle loro ultime uscite ritroverà gli Arcade Fire che tanto ha amato in passato e ai quali, in fondo, non ha mai smesso di volere bene.