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REVIEWSLE RECENSIONI
28/08/2019
Slipknot
We Are Not Your Kind
Dopo cinque anni gli Slipknot tornano con “We Are Not Your Kind”, il loro album musicalmente più ambizioso. L’esito in due parole? Missione compiuta.

Da almeno quindici anni a questa parte, ogni volta che sta per essere pubblicato un nuovo lavoro targato Slipknot, si ripete lo stesso canovaccio. Nei mesi che anticipano la release date, infatti, il frontman della band Corey Taylor non perde occasione per avvertire i fan che quello che andranno ad ascoltare di lì a poco sarà «sconvolgente, un incrocio tra il primo album e Iowa». Ma se da un lato è chiaro che così facendo Taylor punta soprattutto ad alzare l’hype attorno al disco e a blandire la frangia più intransigente dei maggot, dall’altro è anche vero che a gridare troppo “Al lupo! Al lupo!”, come insegna Esopo, alla fine quando il capolavoro finalmente arriva – e We Are Not Your Kind, va detto subito, ci arriva dannatamente vicino –, come minimo ci si approccia al primo ascolto carichi di un sano scetticismo.

Sesto album in studio dei nove mascherati dell’Iowa, We Are Not Your Kind arriva a un lustro di distanza da .5: The Gray Chapter, lavoro con il quale la band inaugurava un nuovo corso dopo la tragica morte del bassista Paul Gray e l’allontanamento in termini tutt’altro che amichevoli del batterista Joey Jordison, sostituiti rispettivamente da Alessandro Venturella e Jay Weinberg. Disco solido e di mestiere, .5: The Gray Chapter è stato seguito da una delle tournée più fortunate degli Slipknot (immortalata in Day of the Gusano), al termine della quale la band ne è uscita sfibrata. Come se non bastasse, quando è stato il momento di riunirsi per lavorare sul materiale del nuovo album, per gli Slipknot è iniziata una serie di guai tra il drammatico e il surreale: Corey Taylor ha divorziato, il chitarrista Mick Thompson è stato accoltellato dal fratello, il percussionista Chris Fehn è stato licenziato (e sostituito dal misterioso Tortilla Face) dopo aver fatto causa alla band per non aver suddiviso equamente gli introiti relativi ai concerti e al merchandising, e, a disco ormai chiuso, l’altro percussionista Shawn Crahan ha perso la figlia ultimogenita Gabrielle a seguito di un’overdose.

Come rispondere a tutto ciò? Creando nuova musica, l’unica arma che gli Slipknot hanno a loro disposizione. Ma se in Slipknot e Iowa la band aveva raccontato la condizione di underdog alzando un muro di chitarre Death Metal e percussioni Industrial, vent’anni dopo a prevalere sono l’esperienza e il mestiere. Il risultato è un disco dove la rabbia viene incanalata in maniera consapevole, consegnando all’ascoltatore un lavoro musicalmente ambizioso, che, allo stesso tempo, ha sia l’ampio respiro di un concept album sia l’impianto di una colonna sonora.

Anticipato l’ottobre scorso dal singolo “All Out Life” (incluso solo nell’edizione giapponese e dal cui testo è tratto il titolo dell’album) e prodotto come .5: The Gray Chapter da Greg Fidelman (al lavoro anche con Metallica e Slayer), We Are Not Your Kind parte come non te lo aspetti, con un pezzo strumentale (“Insert Coin”) a metà strada tra John Carpenter e Stranger Things, per poi esplodere con “Unsainted” e “Birth of the Cruel”, uno-due da knock-out che non fa prigionieri. Dopo l’interludio “Death Because of Death”, si continua su territori conosciuti con “Nero Forte” e “Critical Darling” (che sfruttano entrambe la formula strofa urlata/ritornello melodico), e si prosegue con la simil-ballad “A Liar’s Funeral” e la classica “Red Flag”, con un interessante vocoder sottotraccia nel chorous. A partire dal secondo interludio (“What’s Next”), ha inizio una vera e propria suite in sei movimenti, che accompagna l’ascoltatore verso la fine del disco. L’atmosfera delle canzoni inizia a rarefarsi, progressivamente le chitarre smettono di macinare riff, concentrandosi piuttosto sul lavoro di tessitura, e i synth si portano in primo piano. Uno degli apici dell’album è senza dubbio “Spiders”, che inizia con un piano che sembra suonato da Mike Garson e prosegue con un assolo à la Adrian Belew. E se “Orphan” è tutta rabbia e bile, l’abisso torna a riaffacciarsi in “My Pain” e “Not Long for This World”, che rileggono in chiave Slipknot le atmosfere claustrofobiche dei Nine Inch Nails di The Downward Spiral, prima di accomiatare l’ascoltatore con la potenza devastatrice di “Solway Firth”.

Al netto delle roboanti dichiarazioni di Corey Taylor, We Are Not Your Kind è davvero un grande disco. Sicuramente il miglior lavoro degli Slipknot dai tempi di Vol. 3: (The Subliminal Verses), del quale amplia il lavoro sulle texture sviluppato timidamente anche in All Hope Is Gone senza troppo coraggio. Guidati dal direttorio composto dal chitarrista Jim Root e Shawn Crahan (che hanno sviluppato musicalmente l’album assieme ad Alessandro Venturella e Jay Weinberg), dopo quasi 25 anni di carriera gli Slipknot hanno alzato l’asticella, realizzando il loro album musicalmente più ambizioso. Forse a qualcuno mancheranno le chitarre indemoniate, i blast beat, i ritmi tribali delle percussioni e gli scratch di Sid Wilson, ma mai come in questo caso tanta malinconia, tanta fragilità e tanta vulnerabilità – insomma, tanta umanità – sono state le benvenute.


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