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REVIEWSLE RECENSIONI
06/02/2018
Simple Minds
Walk Between Worlds
Sta tutta qui la loro onestà, in questo artigianato d’arte di primissima qualità che rifiuta l’arroganza messianica e non rivendica alcun primato morale.

Qualcuno li ha definiti il “gruppo più inutile della storia del rock” e se prendiamo in esame la loro discografia a partire da Street Fighting Years (1989) ciò potrebbe anche non essere del tutto inesatto; certo è che tale definizione calza a pennello anche agli U2 post Achtung Baby, allo Springsteen post Tunnel Of Love, ai Cure post Disintegration, e, in generale, a qualsivoglia artista di qualsivoglia disciplina. Insomma: quanti sono, nell’arco di carriere ormai ultradecennali, le opere davvero fondamentali, ispirate, innovative e – per usar termini cari alla kritika e triti – ‘seminali’ che un artista è in grado di produrre? Poche; e, più o meno, tutte racchiuse in un arco temporale di una decina d’anni al massimo, con qualche rarissima fiammata di ritorno; per rimanere ai già citati: lo Springsteen di The Rising, i Cure di Bloodflowers, gli U2 di… vabbè sugli U2 sorvoliamo.

La fiammata di ritorno i Simple Minds l’hanno avuta nel 2014 con Big Music, dopo 25 anni e 7 album classificabili, a intermittenza, tra il mediocre (Real Life del 1991 e il successivo Good News From The Next World del 1995) e l’impresentabile (la raccolta di cover Neon Lights del 2001 e Cry dell’anno seguente), passando per risicatissime sufficienze (Néapolis del ’98 e – ma sì, dai! – Graffiti Soul del 2009) strappate più per simpatia che per meriti effettivi.

Date per scontate le ovvietà che li accompagnano da sempre (la voragine creativa apertasi dopo la fuoriuscita di Derek Forbes nel 1985 e divenuta incolmabile nel 1990 allorché quel genio assoluto che fu Mick MacNeil decise anch’egli di abbandonare), che cosa è dunque lecito attendersi da Walk Bewteen Worlds, diciassettesimo capitolo - se escludiamo Our Secrets Are The Same, schedulato per il 1999 e rimasto inedito a causa di beghe contrattuali con la Virgin[1] - della coppia Kerr/Burchill? Nulla più di un onesto disco dei Simple Minds. Sembrerebbe una frase fatta, in realtà è un trabocchetto.

Perché – vi piaccia o meno – Jim Kerr è davvero onesto; più ‘onesto’ di Bono, persino più serio, più umano. Meno “bravo”, certo, ma anche meno tronfio; meno carismatico, certo, ma anche meno presuntuoso; a differenza degli U2, i Minds non vogliono più salvare il mondo (e da cosa, poi?): semplicemente vogliono continuare a suonare la loro musica, divertirsi e far divertire, stare bene e far stare bene chi li segue. Sta tutta qui la loro onestà, in questo artigianato d’arte di primissima qualità che rifiuta l’arroganza messianica e non rivendica alcun primato morale.

E la musica? La musica c’è eccome, a tratti persino brillante, nonostante le defezioni di Mel Gaynor e Andy Gillespie. “Magic”, il primo singolo, apre come forse meglio non si potrebbe: satura di bollori eighties aggiornati al canone contemporaneo (al primo ascolto vi sembrerà una canzone da bimbiminkia, al secondo comincerete a canticchiarla senza ritegno e al terzo vi sentirete felicemente dei bimbiminkia) è puro elettro-pop-rock “tautologico” à la Simple Minds, e lo stesso può dirsi per i restanti sette brani, tutti giocati, come da copione, sui chiaroscuri che da sempre caratterizzano il suono del gruppo - da anni fondamentalmente un duo attorno al quale gravitano eccellenti collaboratori[2] - di Glasgow. Le due canzoni meno riuscite sono quelle, guarda caso, dove si tenta di nuovo certa boriosa epicità: la title-track soffre di orchestrazione pacchiana (registrata ad Abbey Road) e “In Dreams” non sarebbe neanche malaccio con un ritornello meno “neomelodico”; ma, a parte questi due episodi, che impietosamente servono solo a mostrare i segni del tempo sulle corde vocali di Kerr, il resto si mantiene su buoni livelli, con punte di eccellenza in una “Barrowland Star” dal respiro bowiano, nelle chitarre scintillanti di “Summer”, nella stellare “The Signal And The Noise”, nella conclusiva e autoreferenziale (riascoltate “Alive And Kicking”) “Sense Of Discovery”.

E allora, di nuovo: cosa è lecito attendersi dai Simple Minds nel 2018?

Beh, qualche risposta potreste trovarla in questo articolo di Luca Franceschini, pubblicato un po' di tempo fa sullo Speaker's Corner.

 

[1] Verrà accluso nell’ormai introvabile Silver Box, pubblicato dalla Virgin nel 2004.

[2] Attualmente: Ged Hrimes, basso; Cherisse Osei, Batteria; Catherine Ad, tastiere; Sarah Brown, voce e cori; Gordy Goudie, chitarra.