I Grateful Dead non esistono ufficialmente più da 28 anni ma, nel lasso di tempo intercorso dalla morte di Jerry Garcia ad oggi, hanno senza dubbio fatturato molto di più di quando erano regolarmente attivi.
Merito dell’effetto nostalgia, senza dubbio, ma anche di un mercato profondamente cambiato, con le uscite postume che acquistano sempre più peso, nel momento in cui gli unici acquirenti che possono permettersi di comprare regolarmente supporti fisici sono coloro che negli ultimi tempi abbiamo imparato a definire “boomer”.
Nel caso dei Dead, poi, c’è dietro una vera e propria azienda che produce diversi contenuti all’anno, la maggior parte delle quali consiste in registrazioni inedite di concerti (c’è la serie Dave’s Picks, giunta ormai a 47 volumi, ed i ben più voluminosi box set a tema, con cinque-sei show completi per volta). Accanto a questa mole di roba, ci sono poi le edizioni deluxe dei vari dischi in studio, che periodicamente ricevono trattamenti di restyling. Adesso è arrivato il momento dei cinquantesimi anniversari per cui, a partire dal 2019, tutta la discografia della band di San Francisco sta venendo ristampata con l’aggiunta di contenuti di varia natura.
Essendo queste le uniche uscite a non essere di esclusiva del gruppo, e che quindi vengono vendute attraverso i canali tradizionali, ne risulta che siano anche quelle su cui si orienterà la maggior parte del pubblico (anche perché, da quando sono state introdotte le tasse doganali, farsi spedire pacchi dagli Stati Uniti è divenuto decisamente proibitivo).
Wake of the Flood è stato un disco importante nella storia di Jerry Garcia e compagni. Non è quello che la maggior parte degli appassionati vi indicherà come migliore, è quasi del tutto ignorato dal pubblico generalista (ma qui c’entra soprattutto la principale caratteristica di questa band, vale a dire l’essere stata grandissima in sede live, ma non altrettanto in studio; nessuno dei loro album, ad eccezione forse di American Beauty, viene mai incluso in una ipotetica classifica di dischi ideali) ma, se osservato nel contesto del loro intero cammino artistico, rappresenta un vero e proprio spartiacque.
Innanzitutto per il periodo cruciale in cui venne registrato. I Grateful Dead arrivavano da un tour mastodontico e particolarmente massacrante, che aveva toccato anche l’Europa (il doppio Europe ’72 ne è la testimonianza più sintetica ma ogni singolo show di quella leg è disponibile sulle piattaforme di streaming) e che, nonostante fosse andato benissimo, li aveva lasciati fortemente indebitati.
Ronald “Pigpen” McKernan, uno degli elementi più carismatici e rappresentativi della formazione, quello che ne incarnava più di tutti l’anima Blues, era scomparso a marzo, tragico e fin troppo annunciato epilogo di un’esistenza tormentata, segnata da una grave malattia e dall’abuso di alcol. Al suo posto era stato reclutato Keith Godchaux, decisione che avrebbe cambiato per sempre l’identità sonora del gruppo, con la perdita dell’armonica e l’inserimento delle backing vocal della moglie Donna, una decisione che parecchi fan, me compreso, non hanno mai digerito.
In più, delusi dal rapporto con la Warner, avevano da pochissimo lanciato la propria etichetta, con l’obiettivo di avere un controllo maggiore sulla propria musica, oltre che monetizzare di più. Una decisione sensata, ma che richiedeva capacità manageriali che ancora non possedevano e che avrebbe dunque causato più problemi che altro.
È dunque in uno scenario del genere che Gerry Garcia, Bob Weir, Keith e Donna Goodchaux, Phil Lesh e Bill Kreutzmann (con Mickey Hart ancora in esilio volontario, dopo che nel 1971 suo padre, che amministrava le finanze del gruppo, era fuggito con la cassa) entrano al Record Plant di Sausalito, California, dove sotto la guida di Tom Anderson cercheranno di dare forma alle nuove canzoni, particolarmente attese anche perché era dal 1970 che non pubblicavano roba nuova (il famoso dittico Country Folk composto da Workingman’s Dead e dal già citato American Beauty), uno iato che a quei tempi era davvero poco comune per chiunque.
La maggior parte dei brani era già stata testata a lungo dal vivo, un modus operandi che la band adottava sin dagli inizi, per cui il problema più grosso sarebbe stato quello di dare ai singoli episodi una forma il più possibile definitiva, isolando i principali elementi melodici al di fuori delle improvvisazioni fiume che erano il loro marchio identitario.
Un problema, per il gruppo, che in studio non è mai stato completamente a proprio agio, ragion per cui è sempre preferibile ascoltarsi una registrazione live, se si vuole avere un’idea esaustiva su di loro.
A questo giro, tuttavia, le cose funzionarono davvero, sia per il sapiente lavoro di Anderson (che anni dopo ricorderà quelle session come un momento tra i più felici della sua carriera), sia per la presenza di un numero infinito di ospiti (tra gli altri, Bill Atwood e Joe Ellis alla tromba, Pat O’ Hara al trombone, Vassar Clements al violino) che riempiranno il suono dei vari brani, senza tuttavia renderlo esagerato e ridondante.
Il titolo viene dai versi di apertura di “Here Comes Sunshine”, che come quasi tutto il disco è firmata dalla coppia Gerry Garcia/Robert Hunter, che proprio a partire da questo disco avrebbe iniziato a produrre le sue cose migliori. Il celebre paroliere volle evocare il celebre “Vanport Flood”, l’alluvione che nel 1948 spazzò via la cittadina dell’Oregon. È un episodio che lo colpì molto quando era bambino ma nella canzone c’è un errore di data visto che si parla del 1949.
Ad ogni modo quel disastro in sé c’entra relativamente: il diluvio assume qui un significato metaforico, va ad inserirsi su una serie di pezzi che riflettono il divenire del mondo, visto attraverso il ciclo delle stagioni e l’inesorabile alternanza di vita e morte, dove è inevitabile che la scomparsa di Pigpen aleggi come una presenza che occorre guardare.
C’entra molto anche la situazione in cui versava la band in quel momento, con “Row Jimmy” che potrebbe essere letta come un’esortazione ad andare avanti, nonostante la destinazione non sia chiara.
È un disco ispirato, senza quei cali di tensione e quei filler che avrebbero invece fatto capolino negli anni successivi. A riprova di questo, c’è il fatto che tutte e sette le canzoni rimarranno frequentissime nelle setlist della band per tutti gli anni a venire, divenendo anzi occasione di alcune delle Jam più intense dei concerti (penso ad esempio ad “Eyes of the World”, che ogni volta in cui è stata suonata è finita diritta tra gli highlight di quel determinato show).
È anche uno dei loro dischi più vari e versatili: accanto a brani fondamentalmente rock ma dalla struttura non banale (“Mississippi Half-Step Uptown Toodeloo”) o a classici che ricordano il primo periodo del gruppo (“Here Come Sunshine”, oppure “Let me Sing Your Blues Away”, dedicata alla memoria di Pigpen, nonché uno dei pochissimi contributi di Keith Godchaux in sede di scrittura), c’è una ballata intensa e sofferta come “Stella Blue”, uno di quei brani che Garcia sapeva scrivere a occhi chiusi. E poi, ovviamente, quelle tracce epiche che hanno contribuito a diffondere la leggenda dei Grateful Dead, dalla già citata “Eyes of the World” alla clamorosa “Weather Report Suite”, il capolavoro della coppia Weir/Barlow, dodici minuti in cui si passa dal Folk pastorale al Rock, fino alle fughe chitarristiche tanto care alla band.
Nonostante il valore indubbio, il successo commerciale non arrivò, ma le vendite di per sé non andarono così male: a pesare sul bilancio fu più che altro l’ondata di copie contraffatte che invase il mercato, causata da una leggerezza della band, che preferì affidarsi a piccoli distributori indipendenti, molti dei quali poco affidabili, per far arrivare il disco nei negozi. Il fenomeno fu talmente diffuso che i Dead furono costretti a chiedere aiuto all’FBI, per la verità con scarsi risultati; una decisione paradossale, se si pensa che negli anni precedenti il Bureau aveva più volte preso di mira i nostri a causa della loro proverbiale disinvoltura nell’uso di droga.
Se le due versioni demo incluse alla fine della tracklist ufficiale possono essere bollate come trascurabili (da questo punto di vista non hanno mai offerto troppi motivi d’interesse), la stessa cosa non si può dire del secondo cd, dove viene riportata una parte (circa 70 minuti) del concerto alla Northwestern University di Evanston, Illinois, appena due settimane dopo l’uscita del disco.
I fan più accaniti e completisti si lamenteranno senza dubbio della mancata inclusione dell’intero live (può darsi che i nastri fossero in parte danneggiati, o che l’archivista del gruppo David Lemieux non abbia ritenuto il livello della performance adeguato alla pubblicazione integrale) ma la porzione qui riportata basta e avanza per rifarsi le orecchie, anche per chi possedesse già numerose registrazioni relative al 1973 (e in giro ce ne sono veramente tantissime).
Al di là di una “Weather Report Suite” eseguita per intero (evento raro, perché negli anni successivi preferiranno dedicarsi solo all’ultima sezione) c’è da segnalare anche una lunga e spettacolare sequenza composta da “Morning Dew”, “Playing in the Band” (in quegli anni apice delle loro incursioni psichedeliche) ed “Uncle John’s Band”, fuse insieme in un’unica traccia e perfetto esempio della magia che i nostri sapevano sprigionare dal palco.
Un’uscita superflua, molto probabilmente. Eppure, ancora una volta i Deadhead non potranno non comprarla, prova ulteriore di un culto che resiste indefesso, incurante del passare del tempo, ma sostenuto anche da un’indubbia abilità commerciale.
Per i neofiti, ammesso che esista nel 2023 qualcuno che abbia voglia di avvicinarsi ad un gruppo che, per quanto ancora venerato, appare inesorabilmente fuori tempo, questo potrebbe essere il disco giusto.