Innervisions uscì nel 1973 ma potrebbe essere stato pubblicato l'altro ieri: la società occidentale oggi come allora si porta dietro come dei fardelli situazioni mai risolte, dal razzismo, alla povertà, alla diffusione dilagante di sostanze stupefacenti, eroina in quel tempo, cocaina adesso. Wonder descrive la società americana di inizio anni 70 come mai nessuno aveva fatto, e se qualcuno avesse conoscenza del cantante afroamericano soltanto per le canzoni più orecchiabili, penserà che si tratti di un altro artista. Aveva 23 anni quando uscì il disco, e la sfrontatezza di prendere di petto il marcio che girava intorno per costruirci sopra degli inni come "Livin' for the City" e "Higher Ground".
Visions arriva come secondo brano del disco, all'apparenza è come una piccola oasi di serenità all'interno di un lavoro cupo, ma analizzando il testo, che parla di uomini e donne in pace l'uno con l'altro, si scopre che le situazioni narrate da Wonder non sono altro che sogni, delle visioni che una volta terminate ti riportano presto alla cruda realtà. È nel prosieguo della canzone che Wonder prende coscienza che, prima di anelare alla pace universale, l'umanità dovrebbe trovare la pace interiore, dando quindi al brano tutto un altro senso e spogliandola da quel pacifismo spicciolo e moralista che cantanti ben più celebrati del nostro ci hanno ammansito per anni come il panettone a Natale o peggio come delle pappardelle indigeste, che ritornano annualmente sulle tavole imbandite dell'ascoltatore medio a ricordarci di quanto dobbiamo essere buoni.
Concludo dicendo che la genialità della scrittura di Wonder in questo album è abbinata alla maestria strumentale, avendo egli stesso suonato tutti gli strumenti che qui ascoltiamo e che se ancora manca un tassello per celebrare questo disco come un capolavoro senza tempo, lo troviamo nella sala di mixaggio, che ha unito il tutto come se al posto del solo Wonder ci fossero stati dei musicisti.