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REVIEWSLE RECENSIONI
22/07/2017
Banditos
Visionland
Se è vero che il secondo disco è il più difficile nella carriera di un’artista, i Banditos hanno voluto evitare ogni rischio e sono andati sul sicuro

Se è vero che il secondo disco è il più difficile nella carriera di un’artista, i Banditos hanno voluto evitare ogni rischio e sono andati sul sicuro. Visioland, sophomore della band originaria di Nashville, è, infatti, più o meno la copia carbone del fortunato esordio del 2015, pubblicato sempre per la Bloodshot Records, una delle etichette statunitensi più attive e interessanti del momento. Niente di nuovo sul fronte occidentale, dunque, ma la consueta miscela che pesca dal southern anni ’70 e dal sound Muscle Shoals, riletti in chiave psichedelica e speziati con una spolverata di garage. Se si può trovare qualche differenza fra i due lavori, questa sta eventualmente solo nella diversa proporzione degli ingredienti: se il disco d’esordio, infatti, suonava leggermente più rock, in Visionland prevale il gusto per la ballata soul. Niente di tanto eclatante, però, da cambiare le carte in tavola che, come si diceva, restano sostanzialmente le stesse. Il disco parte alla grande con Fine Fine Day, brano swamp rock alla Lynyrd Skynyrd, attraversato da un’attitudine garage e con le chitarre aizzate in un finale veemente. E’ però un episodio quasi a sé stante: la successiva Strange Heart, introdotta e sostenuta da un bel drive di basso, sposta, invece, l’accento verso il soul e vede protagonista la bella voce di Mary Beth Richardson, che insieme al banjo di Stephen Alan Pierce, è l’elemento maggiormente identificativo del sound della band. Grande prova, e un’interpretazione che richiama alla memoria Janis Joplin, per quanto, in altri frangenti, la Richardson sembra aver mandato a memoria più lo stile di Bonnie Bramlett. Se Lonely Boy è un country pop dal sapore vintage, che combina una melodia garage anni ’60 a un’attitudine country elusiva e sottotraccia, la title track imbocca decisamente la strada della psichedelia, mentre Fun All Night fa emergere l’anima blues della band e la conclusiva e rockeggiante DDT, col banjo a tessere le fila e un inaspettato cambio tempo a metà brano, testimonia, invece, di una raggiunta maturità a livello compositivo. Un disco ben fatto, dunque, con cui i Banditos cristallizzano definitivamente un suono, ma che, a dire il vero, manca di quelle grandi canzoni che consentirebbero al gruppo il definitivo salto di qualità. Un album di mantenimento, verrebbe da dire, che, se da un lato garantisce alla band i medesimi standard dell’esordio, dall’altro non sembra sviluppare adeguatamente quello che pare essere un grande potenziale, al momento parzialmente inespresso.