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REVIEWSLE RECENSIONI
17/12/2017
Propagandhi
Victory Lap
A cinque anni dal loro ultimo lavoro, i Propagandhi presentano un disco dai suoni più rock, ma in cui i valori fondamentali sono gli stessi di sempre. Un album maturo e diretto, sperimentale ed equilibrato, che vuole dare risonanza alle voci della comunità di colore e fornire prospettive diverse a chi non le ha mai avute. “Un sacco di gente è stanca di sentire un altro uomo bianco pontificare sulle cose e lo sono anch'io, sono stanco di sentirmi. Sono solo un ragazzo in una fottuta band e questa band si scatenerà”.

Dopo più di trent’anni, i Propagandhi sono tra le poche band che possono dire di aver contribuito a cambiare le prospettive della comunità punk. All’uscita di Less Talk, More Rock (1996) nella scena skate-punk in voga negli anni ’90, presentare lunghi testi sulla giustizia sociale, il femminismo, l’omofobia e i diritti degli animali non era scontato. La loro fan-base iniziò a divenire subito molto progressista e i valori promossi non solo non cambiarono nel tempo, ma contribuirono a forgiare una generazione di coscienze. Basti pensare che, solo pochi anni più tardi, band come NOFX e Green Day riscoprirono il loro lato socio-politico con album che li portarono a scalare le classifiche (War on Errorism e American Idiot). Nel caso della band capitanata da Fat Mike, inoltre, il legame con i Propagandhi è ancora più forte: è stato lui stesso a scoprirli nel 1991 e a produrre i loro primi album per la Fat Wreck Chord.

L’impegno sociale è presente sin dagli esordi della band, ma le prime prospettive ad essere state cambiate sono state proprio quelle del cantante Chris Hannah. Come racconta in un’intervista, inizialmente era di opinioni conservatrici, ma, grazie ad un disco dei Millions of Dead Cops e al batterista Jord Samolesky (con cui formò il gruppo nel 1986 e che glieli fece conoscere), incontrò l’intensa scena politica che ruotava attorno al punk-hardcore dei primi anni ’80. Si scontrò con punti di vista differenti, che lo fecero riflettere sulle sue convinzioni e che lo portarono a modificare le sue idee. Da metallaro qual era, inoltre, si appassionò alla scena hardcore, e questa doppia anima musicale rende ancora riconoscibile il suono dei Propagandhi.

Con Victory Lap, settimo album in studio della band, il cambio di prospettiva avviene di nuovo, ma questa volta rispetto a due coraggiose prese di coscienza. 1. Siamo dei ragazzi bianchi, maschi, canadesi e di mezza età. È quindi inevitabile che i movimenti sociali che consideriamo importanti e ispiratori (come quello delle Black Lives Matter e del risorgimento indigeno) non possiamo sperimentarli in prima persona. Di questi, però, possiamo divenire il megafono, dare un segnale di supporto ed educare alla loro conoscenza qualche kid in più. 2. Vista questa inevitabile distanza, siamo proprio sicuri che il problema sia solo delle organizzazioni governative? Come uomini bianchi di mezza età, non abbiamo forse anche noi delle colpe e non siamo in parte responsabili dei problemi che raccontiamo? (“Comply/Resist”; “Cop Just Out Of Frame”)

È qui infatti il sottile punto di equilibrio (e di coraggio) che i Propagandhi riescono a raggiungere: sostenere una causa, puntare il dito contro qualcuno e, al tempo stesso, tornare a puntarlo su se stessi, rivolgere quelle stesse critiche su di sé. Quanta responsabilità abbiamo verso il mondo che critichiamo? E quanta verso le cause che sosteniamo?

A livello di suoni, l’album è simile al precedente Failed States (2012). Rimangono i riff metal che identificano il loro sound, ma vengono conditi da un numero maggiore di sperimentazioni nel campo del rock. All’interno di un'unica canzone, si possono apprezzare sfumature diverse e strutture musicali non banali. Il messaggio che si vuole comunicare è riportato in musica da un’oscillazione continua: da un lato la potenza dei riff e di alcune cavalcate sonore (“Victory Lap”) debitrici di un certo tipo di metal e delle loro radici punk-hardcore (“Letters to a Young Anus”), dall’altro la leggerezza di alcuni passaggi più rock, fino alla discesa verso momenti più lenti e riflessivi (“Lower Order (A Good Laugh)”).

Le orecchie e la testa degli ascoltatori possono quindi avere un’esperienza completa, quasi come a cavallo della giostra in rovina che i Propagandhi presentano in copertina. Si passa dalla lettura impegnata dei testi, al godere dei riff e delle progressioni più potenti, fino alla sperimentazione delle loro versioni sonore più inusuali, immergendosi in un album che fa riflettere a molti livelli e che sa cambiare colore e sapore ad ogni replay.

A voi che lo cavalcherete quindi una sola domanda: il vostro, sarà un “giro della vittoria”?