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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
06/04/2020
Massimiliano Larocca
Viaggiandoci dentro, attraverso
“Exit|Enfer” è un flusso di coscienza che per la prima volta non ha forme estetiche canoniche ma è parola che fluisce attraverso senza preoccuparsi del verso ma solo della direzione. Attraverso appunto. Ti trapassa dal primo ascolto e resti immobile.

“…l’unica terapia per superare i dolori è quella di abbracciarli completamente, e raccontarli pure” (Massimiliano Larocca).

Ritrovo un vecchio amico di qualche fortuita scorribanda sonora e spirituale. Ho come l’impressione che le persone che più sanno codificarti siano sempre altrove, in un luogo a prova di geografia e tempo. Raggiungerli è un camminare verso che spesso è soffocato dalla comodità delle abitudini. Massimiliano Larocca ha sempre avuto una voce prettamente dedita alla narrazione, con quel piglio che a me piace definire americano facendo una sintesi violenta di tutto ciò che non è pop e non è “inglesisticamente” rock (citazione che prendo a prestito dall’istinto). Americano nella forma, quella di prima, che richiamava le trame roots di Springsteen o le acidità elettriche di un suono voluto grezzo e casuale. “Qualcuno stanotte”, qualche anno fa, era un disco che sapeva di ferro. Poi acqua sotto i ponti, l’omaggio a Dino Campana… e ora questo lavoro di un fascino incredibile e privo di egocentrismo estetico.

C’è da fermarsi. Da un dentro ad un fuori, o forse vale il contrario. Forse al fuori  dovremmo arrivare soltanto dopo aver veduto bene nel buio dei segreti che covano di dentro. Forse la completezza inevitabilmente si compone anche delle sue zone d’ombra. Il suono di questo “Exit|Enfer” io l’ho definito americano anche se, di grazia, lui stesso mi corregge portandomi a far doverosa attenzione a quella scena, un po’ dannata, un po’ partigiana che la canzone d’autore maestra, quella degli anni d’oro di Tenco e di Ciampi, cercava di imporre al canto leggero della massa. Dannato sicuramente lo è anche questo lavoro. Ma è un dettaglio su cui dovrò ancora riflettere, mio caro amico.

“Exit|Enfer” è un flusso di coscienza che per la prima volta non ha forme estetiche canoniche ma è parola che fluisce attraverso senza preoccuparsi del verso ma solo della direzione. Attraverso appunto. Ti trapassa dal primo ascolto e resti immobile. E quando finisce ti scopri inerme alla ricerca di un orientamento, di una chiave di lettura che funzioni. “Exit|Enfer” puoi leggerlo in qualsiasi modo tu voglia. Liriche così pregiate (per chi ama la beat generation soprattutto, tanto per fare un’altra sintesi violenta) emozionano e sorprendono oltre che dimostrano una meravigliosa potenza immaginifica danzante in una perfetta risonanza con il suono che le circonda. E parliamo del suono che vede Hugo Race ai pennelli e alle scelte di fino… e con lui una sequela di collaborazioni. Tra tutte, non me ne vogliano gli altri, voglio citare Howe Gelb: la profondità della sua voce, la sottile puntualità della sua chitarra e quei rimandi ad arredi di legno che ho amato sin dal primo ascolto di “Gathered”. Ma questa è un’altra storia.

“Exit|Enfer” è immagine raffinata, è libertà di perdersi, è alcova segreta, è il senso primo di un uomo che finalmente ha capito come accogliere le sue zone d’ombra.

Ed è il tempo l’ultima cosa che voglio sottolineare: “Exit|Enfer” scorre lento, come fluido, come gelatina, scorre come fa la verità quando non ha necessità di soffocare.

“Exit|Enfer” lo sveli lentamente, con fiato sospeso, raschiandoti la pelle come fa la lana grezza quando passa sopra le tue gambe.

Iniziamo dal titolo. Uscita. Inferno. Quanto ho potuto ragionare su queste due parole, non puoi saperlo!!! I piani di lettura che ho trovato sono tantissimi ma ti dico quel che ho voluto scegliere come preferito. Inferno è quel che si trova fuori dal tutto che viviamo ogni giorno. Ti prego… dimmi la tua…

Tecnicamente la barra verticale che separa i due termini è chiamata "pipe", ed indica che le operazioni che stanno a sinistra hanno la loro risoluzione in quelle alla sua destra.

Al contempo il titolo crea una sorta di ambiguità voluta, non specificando se si tratti di uscita "per" l'inferno oppure uscita "da" l'inferno. Ognuno può leggere e scegliere il proprio percorso di entrata e di uscita. Quel che è certo è che il titolo suggerisce un viaggio "attraverso", un viaggio "fuori da dentro" mi verrebbe da dire. Che trovo molto in linea con la natura di queste canzoni, che è una natura molto intima e dolorosa. Del resto l'unica terapia per superare i dolori è quella di abbracciarli completamente, e raccontarli pure. Sono canzoni personalissime, ma al tempo stesso universali perché i dolori di cui parlano appartengono a tutti.

Edulcorando ancora questo titolo e poi pensando alle canzoni. Ho trovato una forte voglia di sfidare l’omologazione promettendo, anzi dimostrando, come fuori dai canoni del comun pensiero esistono le passioni vere, istintive. E le passioni per antonomasia sono il cuore pulsante dell'inferno. In fondo questo disco è di un’istintività davvero emozionante…

L'omologazione la si sfida semplicemente mostrando una personalità viva e definita, e questo avviene anche per sottrazione, sottovoce, con registri intimi che posso essere potenti quanto un grido di rabbia o paura. Sono 11 canzoni che raccontano 11 piccoli "inferni" quotidiani, e lo fanno attraverso un linguaggio sicuramente istintivo come dici tu. Istintivo nel senso che è un linguaggio che spesso procede in modo non lineare e narrativo, in una sorta di flusso di coscienza che ripercorre il "metodo mitico" di cui parlavano T.S. Eliot e Joyce, giusto per scomodare i Giganti che hanno camminato sulla terra. È una scrittura nuova per me, che ho sempre avuto sin qui velleità da cantastorie, da songwriter. Quindi convengo con te: ho abbandonato la costruzione che la narrazione presuppone, in favore di una scrittura più istintiva e rapsodica.

L’italiano certamente, ma anche l’inglese e il francese. “Black Love” addirittura nasce e vive tutta in inglese. Perché questo linguaggio che un poco cambia faccia?

Questo si lega in parte anche a quanto detto sopra: con le parole si è anche voluto giocare, privilegiando a volte il significante a favore del significato, ovvero togliendo quello che Carmelo Bene chiamava "il sasso in bocca". Quindi l'inglese o il francese usati per vari motivi: perché suonavano meglio; perchè "Black love" così è stata scritta inizialmente e i propositi di trasporli in italiano si sono arenati subito considerando che avrebbe perso di freschezza ed immediatezza; perché usare l'inglese con brevi inserti ha creato anche un effetto di distacco che ha rafforzato i contenuti delle canzoni.

Quando ho scoperto anche grazie a te Dino Campana ho sempre avuto il pregiudizio che tanto della tua penna provenisse da li. Certamente questo disco è figlio di una poetica che ho trovato più beatnik (dal lato francese più che americano, più Céline che Kerouac per capirci)… eppure ti chiedo: quanta poesia italiana è rimasta a contaminare la scrittura di questo disco?

La scrittura automatica era certamente un tratto distintivo dei poeti beat, e in questo disco ci sono dei tentativi in questo senso come detto, se più o meno riusciti non sta a me a dirlo. Certamente "Orfani", "Guerra fredda", "Il regno" sono scritte per libere associazioni. Però non dimentichiamoci che questo metodo, che era la risposta della letteratura alla nascente psicanalisi, gli americani lo mutuarono certamente dall'Ulisse, da Céline ma anche, perché no, da Montale. Campana c'è ancora, e sempre ci sarà, tanto è forte il mio legame con lui. Lo trovi in questo cuore sanguinante e pulsante che balza fuori dai Canti Orfici e che spero sia palpabile in questo disco, attraverso i testi ma anche per merito della musica

Voglio parlare dell’immagine di copertina: questo “parto”, questa “esplosione” di coscienza… questo “io interiore” che viene alla luce. Ho letto tutto questo dentro il dipinto… dimmi la tua…

Lasciami dire che con questo album ho rinnovato la mia collaborazione con l'artista volterrano Enrico Pantani, che come nel precedente disco su Dino Campana ha curato tutto l'artwork con delle splendide illustrazioni nate sull'ascolto di queste canzoni. L'immagine in copertina è ambigua come lo è il titolo: può rappresentare un'ascesa, una rinascita ma anche una caduta, nell'inferno appunto.

Io ho pensato subito alla Commedia di Dante e alle illustrazioni di Blake, non appena Enrico me l'ha mostrata.

O ancora: ci sono due figure, una delle quali è in caduta mentre l'altra è in ascesa.

Un'altra ambiguità voluta, che però è molto chiara nel mostrare gli elementi che questo disco mette in campo: luce e ombra, fiamme, anime, salvezza o dannazione, nascita o morte.

Accendiamo un faro luminoso sul suono. Da Hugo Race ad Howe Gelb tanto per citare una colonna portante della produzione artistica ed una preziosa collaborazione… tra le tante… niente di questo suono appartiene alla nostra tradizione o sbaglio? Anche qui hai sempre cercato l’America...

Su questo non sono molto d'accordo, credo che il sound di questo disco sia tutt'altro che americano.

Quantomeno non lo erano le premesse e le idee iniziale di produzione. Guarda, a Hugo avevo sin dal principio chiarito la mia idea, che si legava a quella che credo essere la grande eccellenza italiana in quanto a canzoni ed arrangiamenti: ovvero tutta la generazioni dei cantanti confidenziali degli anni sessanta, da Tenco a Endrigo al primo Ciampi. Veri e propri "crooner" che raccontavano i loro tormenti con grandi orchestrazioni alle spalle.

Non potendo ovviamente usufruire di un'orchestra, volevamo però un disco che avesse un utilizzo della voce particolare e prioritario attorno alla quale costruire dei campi lunghi di suono o comunque delle profondità. Ma l'idea portante era legata proprio a quel tipo di produzioni italiane lì.

A ciò si è poi naturalmente aggiunta tutta la scuola di suono da cui proviene Hugo, e quindi le influenze estere che senti sono legate a Lee Hazlewood, Scott Walker e ovviamente Nick Cave piuttosto che ai classici americani a cui facciamo sempre riferimento (da Dylan a Springsteen a Waits).

Devo farti domande su questi testi che aprono scenari davvero illimitati. “Cose che non cambiano”, una canzone che, per come l’ho vissuta io, in qualche modo “misura il futuro” con saggezza. Quali sono le tre foto che conservi?

Le cose che non cambiano definiscono per eccellenza quella che è la nostra condizione esistenziale, sempre tesa verso un cambiamento, una ridefinizione, una rinascita perlopiù impossibile. In questa ricerca dobbiamo necessariamente distruggere molto, fuori e dentro di noi.

Le fotografie sono ciò che resta tra le macerie. Nel mio caso, le tre foto sono quelle della mia famiglia perduta, della mia compagna perduta, del mio passato da ricostruire. Sono queste cose, tutte quelle che devi tornare indietro a raccogliere per strada che danno la "misura del futuro" di cui parli.

“Il giardino dei salici” è una canzone di resilienza e di resistenza spirituale, d’amore. Qual è, dov’è e cosa rappresenta questo luogo?

Come in ogni viaggio che possa definirsi tale, c'è sempre un luogo di partenze ed uno di arrivo.

Il giardino dei salici è questo luogo, per questo disco e per questa particolare storia.

È il crocevia dove convivono tutti gli opposti che ci abitano, è il posto dove cadere ma dove un giorno poter forse risorgere. Chi di noi non ha un giardino interiore, fatto di piante e fiori al quale non sappiamo dar nome perché non contemplato in nessun manuale di botanica?

“Perdiamoci”. A mio modo di sentire è la vera title-track del disco. Nel senso che esprime secondo me il concetto di questo disco. Liberarsi, tornare alla verità di sé…

È un invito a perdersi in un piccolo attimo, per potersi perdere davvero nell'eternità.

La verità del proprio essere deve abbandonare le categorie del tempo e dello spazio, per riconoscersi come tale. Ma più semplicemente la canzone può anche raccontare la notte di due amanti, oppure il ricordo di un amore perduto per sempre. La forza delle canzoni è quella che ognuno può trovarvi alloggio come meglio crede, in base al proprio vissuto.

“(Eravamo) Orfani” trovo che sia una fotografia sporca e violenta del silenzio che è cresciuto dentro il nostro essere individui, della nostra attualità. Perché eravamo? Cos’è cambiato oggi?

È una canzone personalissima perché è una sorta di racconto autoterapeutico tra me e mio padre adottivo, dato che entrambi eravamo accomunati dal fatto di essere entrambi "orfani".

Può sembrare un percorso tortuoso, ma per me è stato un processo molto onesto verso me stesso, ne avevo bisogno. Poi, certo c'è anche la chiave sociologica ed esistenziale che suggerisci tu: ed è ancora un'affermazione di forte individualismo in questa contemporaneità che confonde reciprocamente le identità di tutti.

Potrei continuare così per ore… ma lascio che sia il disco a parlare. In ultimo parlami di questo “nuovo” mondo di Massimiliano Larocca. Hai sempre cercato l’America, ripeto, ma questa volta hai trovato una dimensione che sembra somigliarti più di tante altre che hai celebrato in passato. Ho trovato questo come un disco di vera liberazione personale. “Exit|Enfer” penso che sia un disco che raramente la scena di oggi riesce a concepire, impegnati come siamo a celebrare l’estetica e l’apparire…

Se c'è qualcosa che rende questo disco così poco omogeneo coi tempi correnti e quindi fuori dal coro, credo sia proprio il linguaggio ancora prima che il suono o le scelte di produzione. Forse perché il linguaggio dell'intimo e dell'inconscio è stato rimosso da una società, la nostra, che oggi più che mai ha bisogno del Controllo su di sé e sugli altri, su tutto. E che quindi non concede spazio all'irrazionale e all'insondabile. Il segnale che vogliamo lanciare è che invece questo è un linguaggio da recuperare, e sono proprio le piccole apocalissi che stanno arrivando in sequenza (non ultimo il virus corrente) che ci costringeranno a riprendere un dialogo con noi stessi per poter interpretare gli altri, il mondo e i fatti spesso oscuri che li muovono.


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