“Non ci impegniamo più a fare musica orizzontale (…) e con questo
intendo musica che inizi nel punto A, si sviluppi fino al punto B e finisca
al punto C in una specie di progressione logica o semi-logica. È molto più
interessante costruire una musica che si dà un blocco solido di
interazioni.”
BRIAN ENO
“Non è detto che un film debba avere un inizio, un centro e una fine
ordinati in questa sequenza.”
JEAN-LUC GODARD
Tanto per mettere subito le carte in tavola.
Invitato presso l’Università di Harvard per tenere una serie di conferenze - le famose Norton Lectures[1] - Igor Stravinskij se ne uscì con questa folgorante frase: “Io considero, infatti, la musica, per la sua stessa essenza, impotente a esprimere alcunché: un sentimento, un’attitudine, uno stato psicologico, un fenomeno naturale o altro ancora”. Dirompente, come lo fu, la sera del 29 maggio 1913, alla prima rappresentazione del balletto La Sagra della Primavera quando - non metaforicamente - venne giù il teatro. Di solito si usa questa espressione per intendere il livello d’intensità dell’ovazione del pubblico per cui il successo dell’opera rappresentata è consegnato alla storia. Non fu così: leggenda vuole che a tarda sera, l’impresario dei famosi Balletti Russi, Sergej Diaghilev e Stravinskij[2] si trovarono al Bois de Boulogne, con il primo in lacrime a declamare versi da poesie russe per darsi conforto a fronte dell’insuccesso.
La musica di per sé non esprime nulla?
Forse non è del tutto giusto chiamarlo un insuccesso o, meglio, forse il pubblico voleva altro: desiderava trascorrere una serata a teatro immerso in un clima che lo confortasse, voleva presenziare in un luogo dove riconoscersi tra simili, borghesi, per trovare conferma del proprio status sociale. Diversamente dalle teorie stravinskiane, a me piace pensare che fare musica o più semplicemente goderne sia segno di un’esigenza, perciò quando veniamo strappati dalla consuetudine sonora che ci lascia tranquilli, ecco allora che qualcosa dentro di noi si ribella: avvertiamo una dissonanza generatrice di un’onda emotiva che ci porta a desiderare una sorta di Ritorno all’ordine, tanto per citare una famosa raccolta di saggi di Jean Cocteau. Proprio in questi scritti campeggia una frase dedicata al compositore russo che inquadra perfettamente quello che potremmo definire il suo secondo periodo dopo quello fauve, il periodo neoclassico:
“Esiste qualcosa di grande in quest’uomo a cui il pubblico chiede ancora di essere scudisciato ed egli risponde con buffetti in guanti bianchi”.
Cosa significa questa frase? Cosa ci vuole dire?
Si torna sempre alla significanza, all’espressività come parametro.
Innanzitutto, questa citazione testimonia che già alla terza replica Il Sacre (come lo chiamano gli addetti ai lavori) era divenuto un classico. L’orecchio del pubblico si era abituato a questi accordi “selvaggi”, a questa musica così impetuosa come, del resto, deve essere un rito panico di risveglio della terra[3]. Più che all’ordine, un ritorno alle radici direi, ad un sotterraneo attaccamento alla terra tipico di un’anima russa che vuole porsi fuori dal contesto razionalistico occidentale. In questo senso non sono casuali l’amicizia e la collaborazione artistica con il poeta svizzero Charles Ferdinand Ramuz, che portarono alla realizzazione de L’Hisotire du Soldat, opera per piccola orchestra contro l’assurdità della guerra. Proprio dalle montagne svizzere i due videro partire il treno che riportava in patria Lenin dall’esilio prima dello scatenarsi della rivoluzione d’Ottobre. Quando ripenso a quest’immagine provo a calarmi nel momento in cui quell’uomo guardò il suo destino senza poterne avere la piena consapevolezza: quel treno col suo viaggio porterà ad imprimere una svolta nella Storia. Il compositore non poteva certo scorgere la prefigurazione del suo allontanamento dalla patria per decenni, con tutto quello che avrebbe comportato in termini di riscrittura delle sue opere, avendo perso i diritti in seguito alla rivoluzione.
In seconda sede la citazione vuole testimoniare come spesso non sia semplice seguire l’evoluzione di un artista che senta il bisogno di crescere; dopo il periodo dei Balletti Russi che si caratterizzò per una rielaborazione della tradizione russa (vedi L’uccello di fuoco, Petrushka ma soprattutto gli esiti raggiunti con il balletto Le nozze dove l’anima russa risiede nel solco delle usanze per la festa matrimoniale), Stravinskij inaugurò il suo secondo periodo con la cosiddetta Musica al quadrato. Musica ideata nel senso della duplicazione, elevando a potenza la tradizione e rinnovandola a livello compositivo. Pulcinella del 1919, è l’inizio di questa fase con citazioni delle musiche di Giovan Battista Pergolesi: con quest’opera si evidenzia il punto di contatto, anche per temperamento, con Pablo Picasso, con il quale il compositore russo condivise più o meno negli stessi anni un’uscita scandalosa. Mi riferisco al clamore suscitato dal dipinto Les Demoiselles d’Avignon (l’opera fu realizzata nel 1907, la Sagra è del 1913), con quelle nudità di donne con il volto coperto da maschere africane. Penso che per la potenza dei colori, per l’atmosfera panica che emerge dalla tela e per il netto distacco da un’impostazione razionalistica, si possa tranquillamente ascoltare la Sagra della Primavera, osservando questo dipinto, quasi a voler creare una sinestesia. Qualcosa di simile al Suono Giallo di Kandinskij, trattato che vide la collaborazione di Arnold Schönberg, capostipite della Seconda Scuola di Vienna.
A voler guardare, senza nulla togliere al genio russo, non sembrerebbe che la musica non esprima, ma forse il punto si pone da un’altra parte. Vediamo quale.
Guerra alla tonalità.
Nel 1960 il giovane regista-filosofo Jean-Luc Godard ruppe con i canoni della tradizione cinematografica e diede alla luce una pellicola – “All’ultimo respiro” – con cui si inaugurò la stagione della Nouvelle Vague, un’onda che consegnava un cinema fatto di salti di montaggio volutamente sbagliati, sguardi in macchina del protagonista tesi a parlare con il pubblico - la grammatica dei padri lo vietava assolutamente - e una novità di linguaggio non lineare, che fece scuola e che riecheggia tutt’oggi. Per tutto il film lo spettatore è sballottato in avanti e all’indietro da piani-sequenza lunghi o accelerati in una successione che spezza le regole classiche e che insulta lo status quo raggiunto all’epoca mediante quel “tu es dégueulasse” rivolto da Jean-Paul Belmondo, morente, alla compagna, considerata disgustosa per averlo denunciato. Qualcosa di simile deve esserselo sentito dire Arnold Schönberg alle prime esecuzioni delle sue musiche dodecafoniche. Spero che il compositore non ne abbia a male[4] se lo accosto a Godard, ma del resto proprio da lui partì un tentativo di rottura con le regole del sistema tonale in virtù di una musica non più legata ad una progressione gerarchica ma democratica, che evitasse la prevalenza di un suono sull’altro, ponendo all’inizio della composizione una serie.[5] Secondo questa regola nessun suono doveva essere ripetuto prima che fossero comparsi gli atri undici, componenti la scala cromatica. Sempre godardianamente, era possibile evitare una rigida uniformità invertendo o retrogradando la serie iniziale; insomma un vero punk che, dopo i fischi e gli schiamazzi (per non dire di vere e proprie liti tra detrattori e sostenitori) ricevuti alle prime esecuzioni delle sue opere, fu degnato di una vera e propria acclamazione alla prima mondiale presso il Musikverein di Vienna dei Gurrelieder nel 1913 (lo stesso anno dello scandalo della Sagra di Stravinskij). Le cronache raccontano che non volle ricevere gli estimatori e che si presentò sul palco inchinandosi davanti ai musicisti ma dando le spalle al pubblico: Sid Vicious non era ancora nato.
Dogmi e discepoli, breaking the waves.
Non ho intenzione d’intavolare una complessa analisi in termini di teoria musicale: quello che merita evidenziare è il tentativo di un artista di non volersi accontentare, di voler andare oltre codificando un nuovo linguaggio, tentativo seguito pure da alcuni discepoli, tra cui i più noti sono Alban Berg e Anton Webern[6]. Niente, però spunta all’improvviso e Schönberg non è poi così lontano da un percorso e da uno sviluppo storico che ha portato fino a lui; all’inizio del Novecento ci furono anche altri musicisti dediti a mettere in crisi il sistema tonale, Claude Debussy ad esempio, con il suo sguardo rivolto a Oriente e al fascino che ebbero su di lui le scale pentatoniche della musica del Gamelan indonesiano ascoltate all’Esposizione Universale di Parigi.
Nel complesso, una moltitudine di pulsioni, emozioni, idee assediava Schönberg quando mise su carta i suoi fatidici accordi (…) Si sentiva ostracizzato da una cultura concertistica musicale; subiva l’alienazione a cui erano condannati gli ebrei di Vienna; avvertiva una tendenza storica che dalla consonanza portava alla dissonanza; provava disgusto per un sistema tonale diventato insulso. Ma la stessa molteplicità delle spiegazioni possibili evidenzia qualcosa che non può essere spiegato. Non c’era alcuna “necessità” che conducesse all’atonalità, nessun flusso storico irreversibile portò alla sua apparizione. Era il balzo nell’ignoto di un solo uomo. Divenne un movimento quando due compositori altrettanto dotati saltarono dietro di lui.
"Il resto è rumore" – Alex Ross
Nel 1995, esattamente allo scoccare dei cent’anni dalla prima proiezione pubblica dei Fratelli Lumière[7], il regista danese Lars Von Trier, pubblicò un manifesto, noto come Dogma 95 in cui poneva un decalogo di regole da osservare per una nuova onda di Cinema. Mediante il voto di castità, voleva scardinare le regole utilizzate fino a quel momento per dare il via a un nuovo futuro. Sempre seguendo un accostamento per cui spero che i musicologi mi perdoneranno, pare di sentire riecheggiare le parole di un altro presuntuoso[8], Schönberg appunto, quando sosteneva che la Dodecafonia avrebbe avuto un futuro lungo cent’anni[9]. In questo manifesto Von Trier affermava che il cinema doveva essere vero, con il suono in presa diretta, con riprese fatte con la camera a mano e senza aggiunte scenografiche, ad esempio senza ricreare ambientazioni ma usufruendo degli spazi così com’erano. Analogamente ai Giovani Turchi (Godard, Truffaut e gli altri aderenti alla Nouvelle Vague) che negli anni ’60 volevano contrastare il cinema dei papà, Von Trier e Thomas Vittenberg “volevano contrastare una certa tendenza del Cinema attuale”.
Oggi infuria una tempesta tecnologica, da cui conseguirà la definitiva democratizzazione del cinema. Per la prima volta chiunque può fare un film. Ma più i media divengono accessibili, più si fa importante l'avanguardia. Non è un caso che la parola avanguardia abbia connotazioni militaresche. La disciplina è la risposta… dobbiamo mettere un'uniforme ai nostri film, perché il film individuale sarà decadente per definizione! (…) Nel 1960 dissero basta! Il cinema era morto e venne fatto risorgere. Lo scopo era buono ma i mezzi no! La Nouvelle Vague si dimostrò un'increspatura che finì in nulla sulla spiaggia e si trasformò in mucillagine (…) Inoltre giuro come regista di astenermi dal gusto personale! Non sono più un artista. Giuro di astenermi dal creare un’opera, perché considero l'istante più importante del complesso. Il mio obiettivo supremo è di trarre fuori la verità dai miei personaggi e dalle mie ambientazioni. Io giuro di far ciò con tutti i mezzi possibili ed al costo di ogni buon gusto ed ogni considerazione estetica. Così io esprimo il mio VOTO DI CASTITÀ.
DOGMA 95
Volendo tornare in ambito musicale ecco che la regola 10, secondo la quale il regista non doveva essere accreditato, trova perfetta corrispondenza nell’impianto filosofico di Brian Eno, che si definisce non-musicista. Resta da dire, però, che in un’ottica postmoderna e a suo modo ironica, i primi trasgressori delle regole del Dogma, già con i loro primi film, furono proprio Von Trier e i suoi adepti[10]. Quest’ultima considerazione è molto interessante perché a voler guardare così come non ci fu una prima Scuola di Vienna - a cui la seconda composta da Schönberg e soci viene collegata - così anche la Nouvelle Vague cinematografica non fu una vera e propria scuola programmatica ma un sentire comune che portò alcuni registi a lavorare in modo analogo. Tutto questo ci permette di arrivare alla conclusione finale di quest’argomentazione, anzi un non-finale per restare nella terminologia di Eno e della mistica orientale.
Dissonanze e dissolvenze.
Nella piccola monografia dedicata all’artista inglese, Leonardo Vittorio Arena ringrazia Eno per aver generato egli stesso i suoi epigoni “seguendo l’impulso di Borges, smussandone le asperità” per aver creato una musica in sottrazione, “che l’economia sonora è preferibile, più di un turbinio di note”.
Ecco, fermiamoci a quest’ultima considerazione. Provate ad immaginare l’onda di un lungo percorso storico musicale che abbia forgiato determinate forme sonore, alcune modalità compositive, per cui quando parliamo di Sonata, di Rondò, di Concerto sappiamo tutti di cosa stiamo parlando, le diamo per assodate. Pensate a tutti quegli artisti che hanno sviluppato la loro arte nel solco di queste regole senza rinunciare, però, ad introdurre degli avanzamenti, delle piccole erosioni che minassero a poco a poco le fondamenta della cattedrale[11] eretta fino a quel momento. Pensate, ad esempio, alle più di cento sinfonie composte da Joseph Haydn per arrivare alla barriera delle nove sinfonie di Beethoven o di Gustav Mahler, alle sonate di Mozart con il classico ordine dei movimenti. Provate a elaborare la visione di un gigantismo orchestrale: le sinfonie di Anton Bruchner per poi approdare al moloch della Tetralogia wagneriana de L’anello del Nibelungo, con tanto di edificazione a Bayreuth di un teatro dove rappresentarla in quattro giornate, luogo di pellegrinaggio, tempio laico e mistico allo stesso tempo. Ad un certo punto si sono create le condizioni storiche per una frattura: alcuni musicisti si sono sganciati da questo percorso ed hanno provato a introdurre elementi nuovi, accostando dissonanze ad accordi atonali, oppure riscrivendo la musica del passato in una forma parodica. Stravinskij e Ravel furono affascinati dagli albori del jazz tanto da introdurne gli elementi base nelle loro composizioni; Erik Satie diede il via alla cosiddetta musica d’arredamento che connota il compositore come padre della musica Ambient che ha oggi come nume tutelare Brian Eno. Ecco che alla fine di tutto questo pensare a cui vi ho invitato, intravediamo Arnold Schönberg con la sua nuova musica, un sistema seriale basato su regole ferree. In questo senso pare che siamo tornati al punto di partenza. Proprio Igor Stravinskij nelle Norton Lectures, citava una frase di G. K. Chesterton che con il tipico umorismo inglese ricordava che “in Fisica una rivoluzione è il percorso circolare che si compie da un dato punto per poi tornare al punto stesso”.
Ma allora di cosa abbiamo parlato fin qui? Beh, potremmo sederci a riflettere in cerca di una risposta a fianco ad uno dei discepoli di Arnold Schönberg, Alban Berg, il compositore spesso definito come il romantico dei tre, colui la cui musica, messa su cd, riempirebbe tre, quattro dischi al massimo.
Approaching Silence.
Alban Berg è, a mio avviso, il punto d’incontro perfetto di questa tendenza ad innovare tenendo fermo lo sguardo all’indietro: ad esempio nel Woyzeck non esitò a ricorrere ai vecchi schemi del Rondò, dello Scherzo, della Suite, su cui incentrare ogni scena dell’opera lirica. In questo modo andò contro l’idea di una sostituzione del linguaggio vecchio con uno nuovo in favore di un amalgama tra consonanza e dissonanza. Sempre nel segno, però, di una consapevolezza che le cose erano cambiate e forse quello che a noi viene consegnato è, tutt’al più, una forma di nostalgia.
Possiamo avviarci al termine di questo percorso con una composizione dal titolo emblematico: Sonata Op. 1 (l’unica opera scritta per pianoforte); dieci minuti di musica racchiusi in un unico movimento (pensate alla durata delle sonate di Mozart o di Beethoven). La sonata inizia con una serie melanconica di suoni che rispetta i dettami dodecafonici ma che li smonta allo stesso tempo con variazioni e ritorni al tema principale, senza aspettare che tutte le note siano state eseguite. Tonale e atonale allo stesso tempo, fino ad un apice di suoni come se ci trovassimo in cima ad un’onda (si torna sempre dalle parti della vague) per poi discenderne, approdando su una riva desolata fatta di pochi suoni che si affievoliscono in un non-finale nel segno di quello che, sempre Leonardo Vittorio Arena, afferma della poetica di Brian Eno: “…grati per aver interrotto un flusso la cui scansione porterà alla necessità di riudirlo”. Questo è propriamente l’approdo finale della composizione ma anche di questo articolo: dopo le ultime desolate note della sonata, ho sempre sentito il bisogno di riascoltarla, di fare un vero proprio rewind, perché forse mi era sfuggito qualcosa. Pensavo di essere stato padrone dell’ascolto ma qualcuno mi aveva tolto la terra da sotto i piedi per farmi trovare in acque sonore senza un riferimento preciso, in una condizione di spaesamento esistenziale che ha caratterizzato tanta parte del XX secolo.
Fine della Musica per come l’abbiamo conosciuta, allora? Adieu au langage, sempre per citare Jean-Luc Godard?
No, non ho la presunzione di dire se essa esprima o meno qualcosa, ma so che dei suoni non posso fare a meno, perché li avverto come parte di me[12], tanti o pochi che siano. Mi viene incontro, a questo punto, l’altro discepolo di Schönberg, Anton Webern, artista radicale e prossimo a una rarefazione sonora ai limiti del silenzio. Nei Cinque pezzi per orchestra op. 10, egli ci regala poco meno di cinque minuti di musica:
“…il quarto pezzo contiene meno di cinquanta note (…) un paio di alcune grida degli ottoni con sordina (…) qualche pizzicato dell’arpa (…) e per concludere una breve melodia al violino solista –come un soffio: questa è praticamente musica giapponese”.
"Il resto è rumore" – Alex Ross
Il resto è silenzio, diceva il grande Bardo, oppure è rumore, potrebbe fargli eco Ryuichi Sakamoto (il cui punto di riferimento è ovviamente Claude Debussy che a sua volta guardava a Oriente), artista che da sempre esprime ed elabora uno sguardo musicale oscillante tra passato e futuro[13]. Mediante il recupero dei suoni della natura passando dal pianoforte per arrivare alle tastiere dei synth[14]. Forse sta qui il possibile messaggio per il tempo a venire, vale a dire l’idea di una rielaborazione di quanto la tradizione ci ha lasciato, consapevoli del rischio di mitizzare l’antichità voltandosi indietro. Andiamo allora avanti ascoltando il monito di Gustav Mahler:
“La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”
[1] Vi furono invitati anche Italo Calvino e Umberto Eco.
[2] I due sono sepolti l’uno accanto all’altro sull’isola di San Michele, a Venezia.
[3] Una delle cose che più mi attrae del genio russo è la sua prossimità con noi, con la nostra quotidianità. La mattina in cui Stravinskij stava ultimando quella che sarebbe diventata una delle opere più famose del XX secolo, dopo aver segnato sul pentagramma l’ultima nota, si dedicò a scrivere alla banca a seguito di problemi finanziari. Umano, troppo umano.
[4] Era noto per il suo temperamento acceso e intenso.
[5] Stiamo spezzando le catene del tipico andamento della tonalità con il suo punto di partenza, centro di modulazione e ritorno al punto iniziale.
[6] Con questi Schönberg fondò la cosiddetta “Seconda Scuola di Vienna”, che si collegava idealmente ad una prima -storicamente non esistita - composta da Haydn, Mozart e Beethoven.
[7] Mi guardo bene dallo scrivere che abbiano inventato il cinema. Ritengo sia più giusto dire che i due arrivarono al termine di un lungo percorso fatto di invenzioni e tentativi ma, proprio come avviene in una corsa a staffetta, è l’ultimo che prende il testimone e taglia il traguardo ad essere consegnato alla storia. Così come resta scolpita nella memoria la frase di uno dei due fratelli “il cinema è un’invenzione senza futuro”: una testimonianza del fatto che, a quanto pare, non ci credevano poi molto.
[8] Come lo definiva Gustav Mahler, pur essendo tra i suoi primi incoraggiatori quando il compositore si affacciò sulla scena musicale con i suoi ostici accordi.
[9] Oggi nei repertori concertistici resta poca traccia delle sue musiche.
[10] Non stupirà, infatti, ricordare che nel 2005 gli stessi fondatori posero fine con un accordo al Dogma.
[11] Ho da sempre vagheggiato come una sorta di manifesto metaforico nel preludio La Cathédrale Engloutie di Claude Debussy, dove si narra di un mito di sprofondamento e rinascita.
[12] John Cage fece un esperimento: entrò in una camera insonorizzata con il preciso intento di ascoltare il silenzio, ma non poté esimersi dal rendere conto di due suoni che aveva udito, il ronzio del sistema nervoso e il pulsare del battito cardiaco.
[13] Sono passati giusto vent’anni da Back to the Basics, in cui il musicista giapponese omaggiò al pianoforte i maestri della musica classica occidentale.
[14] Illuminanti in questo senso le collaborazioni con Alva Noto e Christian Fennesz.