La domanda potrebbe essere legittima: ha ancora senso, in un'epoca che forse non è più nemmeno Post moderna, dove le distanze temporali si sono appiattite e pressoché tutti i generi musicali sono stati ripresi e reinventati - in una serie infinita di remake che non si può neppure più definire retromaniaca, tanto ha perduto il collegamento con la propria origine - ha ancora senso, dicevo, esprimersi attraverso sonorità che sono state più volte recuperate e riaggiornate?
Come sempre, la risposta non potrà essere esclusivamente teorica ma dovrà tenere conto della realtà dei fatti. Prendiamo la cosiddetta “New Wave 2.0”: gruppi come Interpol ed Editors, più avanti i White Lies, hanno dato a questo genere, di fatto mai passato di moda presso un gran numero di ascoltatori, un nuovo momento di gloria, limandone le asperità e rendendolo anche commercialmente più fruibile. Questo accadeva nei primi anni Duemila. Recentemente è arrivata una seconda ondata, più spostata verso la ruvidezza del Post Punk, che ha visto in act come Protomartyr, Fontaines D.C., The Murder Capital, Idles, gli alfieri più convinti.
Ecco, discutere se continuare a battere questo chiodo sia redditizio oppure dannoso è esercizio superfluo; molto meglio partire dalle band che ci sono e giudicare, caso per caso, se la loro proposta sia valida o meno.
Ecco perché ci sentiamo di dichiarare che gli Iza Grau siano assolutamente meritevoli di attenzione. Vengono da Modena e avevano esordito nel 2017 con “Days Are Nothing”, un Ep di quattro pezzi che al momento risulta introvabile anche sulle piattaforme streaming. Ad aprile è arrivato “Vastness Hurts”, il primo full length, che esce con il prestigioso logo dell'americana Cleopatra Records, nome storico nell'ambito delle etichette di culto (se lo ricorderanno soprattutto gli appassionati di Metal).
Monicker originale ed evocativo, che spiegano essere il nome di un “personaggio mai nato né uomo né donna all'interno della sceneggiatura di un film polacco” e che costituisce il biglietto da visita ideale per una proposta all’insegna della Dark Wave più spinta. Più che gli Editors (che comunque ci sono, almeno in certi inserti melodici) il quintetto attinge alle radici di gruppi come Bauhaus, Sisters of Mercy o primi Cure ma c'è un feeling generale che ricorda molto da vicino i Paradise Lost del periodo “Icon”, anche forse per il timbro roco di Luca Amadessi, che ricorda a tratti quello di Nick Holmes.
In ogni caso, “Vastness Hurts” è un disco scurissimo, nero come la sua copertina e la produzione piuttosto grezza, lontana dalla pulizia sonora delle uscite più recenti in questo genere, ne accentua ancora di più la durezza e il lato per così dire “selvaggio”.
A colpire, comunque, sono le canzoni: il gruppo ha le idee chiare in fatto di scrittura e confeziona nove piccole gemme, perfettamente funzionanti nell'insieme ma dove la bellezza sta soprattutto nei dettagli e nelle atmosfere evocate. I fraseggi di chitarra in particolare sono sempre molto riusciti: con pochi tocchi Sergio P. Cardinali e Alessandro Stefani evocano paesaggi gelidi dove a tratti si intravedono squarci luminosi, che coincidono di solito coi ritornelli, densi di drammaticità ma anche di malinconica domanda, quasi sempre ammantati di bellezza struggente. Sentitevi le cavalcate di “Cage of Blessing”, o di “The Grace Within Nocturnal Animals”, quest’ultima con un basso à la Cure che la tiene su in maniera magistrale (Giuseppe Longone per altro fa un ottimo lavoro in tutto il disco). Ma anche l'opener “Naiad”, un po’ inusuale, visto che è un brano lento e cadenzato, quasi Gothic, all'interno di un disco dove i ritmi sono più accelerati. Eppure, quando arriva il refrain si coglie in pieno il talento di questa band, che pur utilizzando soluzioni più che abusate, sa sempre dove andare a parare per far sì che il brano funzioni a meraviglia.
Forse in questo senso l'apice assoluto è “Recoil”, per come è gonfio di disperazione ma allo stesso tempo di rabbia, oppure tracce come “Northern Lights” e “Inviolate”, che possiedono il giusto bilanciamento di melodia e oscurità e raggiungono quasi la statura di classici. Ma in fin dei conti è impossibile lasciare fuori qualcosa: “Burn Everything”, coi suoi meravigliosi inserti melodici, oppure l'andamento tribale di “Endless Dance”, che nel finale cresce, accelera e diventa molto più rabbiosa; o ancora, da ultimo, la title track, che è anche l’unica dove c’è un certo impiego dell'elettronica e si ricollega idealmente all'inizio, ritmo più lento e chitarre che disegnano universi di cupo dolore, che gridano la possibilità di una via d'uscita.
Un esordio sfolgorante, che affianca gli Iza Grau a band già pienamente collaudate come Starcontrol, We Are Waves e Soviet Soviet, a conferma che anche dalle nostre parti la lezione Dark Wave continua a mietere proseliti.
Solo per amanti del genere ma garantisco che questi andranno fuori di testa. Per quanto mi riguarda, quando riprenderanno i concerti, saranno uno dei gruppi che dovrò obbligatoriamente vedere.