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REVIEWSLE RECENSIONI
09/12/2019
Lionheart
Valley of Death
Aggressivo, incazzato, esplosivo e diretto. Pesante come un gancio al viso e un montante allo stomaco. Amaro come la vita, sincero fino al midollo. Valley of Death è hardcore duro e puro, mischiato al metal al punto giusto. La formula ormai è collaudata e i Lionheart si confermano i migliori. Non ce n’è.

Spavaldi come uno sputo in faccia guardandoti negli occhi, i Lionheart sono testosterone puro. Muscolari, brutali e onesti nell’atteggiamento, nell’apparenza, a livello musicale e nei loro testi, i cinque californiani non si smentiscono nemmeno questa volta. E non ci sono mezzi termini: o li ami o li odi.

I cinque si formano nel 2004 ad Oakland e, dopo un primo EP nel 2006, nel 2007 pubblicano il loro album di debutto, The Will to Survive, seguito in una progressione sempre più serrata da Built on Struggle (2011), Undisputed (2012), Welcome to the West Coast (2014) e Love Don't Live Here (2015). Nel frattempo, una vita di live tra nord America ed Europa, condividendo il palco con band del calibro di Biohazard, Suicidal Tendencies, H2O, Born from Pain, 7 Seconds e First Blood.

Nel 2016 l’annuncio dello scioglimento: l’equilibrio tra lavoro, vita personale e tour a tempo pieno era diventato insostenibile e c’era bisogno di fare un passo indietro per rimpossessarsi delle proprie priorità.

A circa un anno di distanza, però, i ragazzi si rendono conto che l’hardcore, fare musica, suonare insieme ed esibirsi live sono elementi fondamentali per la loro persona, e quindi, perché rinunciarvi?

Decidono di tornare insieme e di non essere più una band a tempo pieno, ma di tornare a fare la cosa che li rende più felici, per tutto il tempo che vorranno e nel modo che preferiscono: facendoci il culo a strisce a suon di hardcore.

A fine 2017 i Lionheart tornano con quella che è una perfetta dichiarazione di nuovo inizio: Welcome to the West Coast II. L’album è una nuova versione del loro disco del 2014, ne ricalca quasi la progressione sonora, ma è composto da nuove eccellenti canzoni, che, nella pratica, diventano già dei classici per la band.

Dopo un simile successo, seguito da un notevole tour che ha toccato anche la penisola italiana in compagnia dei Caliban, è giunto però il tempo di una nuova produzione.

Valley of Death è un perfetto disco hardcore: 10 brani per 24 minuti di pura dichiarazione di potenza. E non si molla fino alla fine.

L’album si apre con toni quasi cinematografici con la traccia omonima e non lascia scampo con la successiva “Burn”, dove Rob Watson dichiara «Ogni ponte che ho costruito, l'ho appena bruciato». Cantante e autore dei testi dell’album, Rob scrive in maniera personale, onesta, cruda e brutale, gettando in faccia a chiunque lo ascolti depressione, frustrazione, violenza, storie di detenzione, ansia, paranoia, dolore, tormenti, ma soprattutto una grandissima voglia di combattere, di non arrendersi e di rialzarsi sempre in piedi, qualsiasi sia il colpo che Dio, la società, il mondo o il destino ha in serbo per lui.

Ogni traccia racconta un pezzo di storia e lo stralcio di una battaglia, combattuta con il sangue e senza mai abbassare lo sguardo. Spesso lo si fa sentendo in lontananza anche le sirene della polizia, e in due casi anche con il supporto di due featuring d’eccezione: Jesse Barnett, cantante degli Stick To Your Guns in “Rock Bottom” e il rapper Mr. Jet Black in “Before I Wake”.

L’atteggiamento persistente è quello del “vieni a dirmelo in faccia” e del “non mi interessa quello che pensi, io farò comunque quello che mi pare e non me ne importa della tua opinione”, come nella più pura e primigenia lezione dell’hardcore… e della vita da strada.

Ed è esattamente questo che si ama dei Lionheart (oltre alla loro musica): la granitica fede nella loro musica, nell’andare avanti a dispetto di chiunque e di qualunque cosa, la fiducia in se stessi e l’amore per quello che sono e per quello che fanno.

La migliore e definitiva esemplificazione di questo concetto, in ogni caso, rimarrà sempre una dichiarazione fatta da Rob Watson qualche anno fa, in cui diceva che gli sembra incredibile che la gente si stupisca, quando dinnanzi alla domanda di quale sia la sua band preferita risponde sempre i Lionheart. In fondo, potendo farlo, scrive esattamente quello che vuole sentire e quello che lo diverte, e ha il pieno controllo su quello che crea, quindi perché non dovrebbe scrivere la sua musica preferita? Ma soprattutto, Rob chiudeva con la provocazione definitiva: in fondo, se fai parte di una band e questa non è la tua band preferita, stai sicuramente sbagliando qualcosa.

Boom. Serve forse aggiungere altro?


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