Ester Shapiro, per tutti Esty, vive all’interno della comunità chassidica di Williamsburg (New York), secondo rigidissime norme, retaggio di un’ortodossia esasperata e di ataviche tradizioni ormai anacroniste. Una comunità in cui la donna vale meno di zero: Esty è sottoposta a continue umiliazioni, è privata di ogni autonomia e libertà, viene mortificata nella sua femminilità, e non può coronare il suo sogno di suonare e cantare, perché ritenuto indecoroso.
Dopo un anno di matrimonio combinato, Esty decide di scappare a Berlino, per ricongiungersi alla madre che, tempo prima, come lei, era fuggita in cerca di una nuova vita. Sulle tracce di Esty si mettono il marito Yanki, fondamentalmente buono ma inetto, e suo cugino Moishe, che predica bene ma razzola malissimo.
Questa, in poche parole, la trama di un serie, che esplora le dinamiche della comunità yiddish, come già in passato avevano fatto alcuni interessanti film, tra cui meritano di essere citati La Sposa Promessa di Rama Burshtein, Kadosh di Amos Gitai, Un’Estranea Fra Di Noi di Sidney Lumet e il recente Disobedience di Sebastian Lelio.
Se da un lato, viene gettato uno sguardo impietoso su un universo inquietante (l’incredulità e lo sdegno dello spettatore crescono di sequenza in sequenza), in cui tradizioni e rituali, immoti nei secoli, privano della propria identità donne, spesso supinamente complici (la donna è solo è una macchina destinata a partorire “per ripopolare il mondo di sei milioni di ebrei, morti durante l’Olocausto”), dall’altro, la macchina da presa di Maria Schrader, segue con empatia e profondità psicologica il percorso di consapevolezza di Esty, piccola e fragile ragazza, che trova il coraggio di rinnegare le proprie origini e, tra mille timori, riappropriarsi della libertà, scoprire le gioie di un mondo che le era stato precluso (l’amicizia, l’amore, una cena tra amici, un bagno nel lago, internet, una discoteca) e inseguire il proprio sogno di musicista (alla fine, come spesso accade, una canzone ci salverà).
Basterebbe questo per rendere Unorthodox una delle migliori serie mai programmate da Netflix: grande attenzione alla psicologia dei personaggi, ritmo palpitante, sceneggiatura impeccabile (Ispirata all'autobiografia di Deborah Feldman, Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots, pubblicata nel 2012) e un pugno di attori in stato di grazia e perfettamente calati nella parte.
Su tutti, però, svetta la piccola Shira Haas nel ruolo di Esty, la cui bravura toglie il fiato e sembra addirittura sprecata per una "semplice" serie tv. La Haas si immedesima talmente nel ruolo che non si coglie più la distanza fra rappresentazione drammatica e la realtà narrata, fra attore e personaggio interpretato. Ogni espressione del volto, ogni sguardo, ogni singolo movimento aprono a un mondo interiore in cui si affastellano sentimenti tra loro contrastanti: il dolore di una vita di privazioni, il desiderio del riscatto, la tenacia di provarci nonostante tutto, la paura di fallire, l’angoscia della solitudine, la gioia delle piccole grandi scoperte, la riaffermazione di una femminilità negata, la rabbia per le umiliazioni subite, la compassione finale di fronte al marito, inerme e disorientato.
Negli occhi e sulle spalle di Esty grava del dolore di tutte le donne del mondo, donne offese, violate, brutalizzate. Un peso grande come un macigno, che la Haas si offre di portare, restituendo, col suo fisico minuto e i suoi occhi di brace, forza e dignità a tutto il genere femminile. Fino in fondo, fino al riscatto finale. Liberatorio e struggente come una canzone che sgorga dal cuore.