Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
Unlimited Love
Red Hot Chili Peppers
2022  (Warner Records)
IL DISCO DELLA SETTIMANA ROCK
7,5/10
all REVIEWS
11/04/2022
Red Hot Chili Peppers
Unlimited Love
Un viaggio personale e traccia per traccia attraverso Unlimited Love, la storia dei Red Hot Chili Peppers e ciò che una band come loro ha provocato, lasciato e regalato sulla pelle e nella mente dei loro fan.

Il fascino di scrivere un nome, annusarlo come fosse la prima volta e riuscire a sentirsi sotto scacco come quelle primissime volte in cui familiarizzavo con queste quattro parole difficili da masticare; quanto mi sembravano elitarie anche solo nel poterle pronunciare. Erano cosa mia. Avevo dodici-tredici anni e in casa spuntò questa cassetta con su scritto soltanto il nome del gruppo, dentro avrei scoperto esserci Blood Sugar Sex Magik (1991). Il resto è venuto da sé.

I primi bootleg terribilmente stonati ma lisergici a dei livelli altissimi, l’uscita dal gruppo di John, la sveglia alle 3 del mattino per sentirli in diretta radio a Woodstock ‘94, One hot minute (1995), Navarro e uno dei dischi più sottovalutati (e forse più riusciti) dell’intero catalogo peppersiano. Poi ci fu la pausa infinita prima dell’uscita del successivo, motivo per cui feci in tempo a familiarizzare a ritroso con Mother’s Milk (1989), per scoprirli iper-americani ed accompagnati da un Frusciante diciottene ed incredibilmente tamarro, The Uplift Mofo Party Plan (1987), l’unico album con la formazione ufficiale al completo Kiedis-Balzary-Slovak-Irons, il funk ispirato di Freaky Stiley (1985) con George Clinton al comando, forse il mio preferito in senso generistico, di ispirazione e di leggerezza nell’ascolto. Dopo Blood Sugar, s’intende, perché lui è il paradiso. Ed ho scoperto anche il primo disco, omonimo, ibrido di ciò che avrebbe dovuto essere un disco funk, filtrato dai suoni del 1984 e da una formazione rimaneggiata e completata da Jack Sherman ed il grande Cliff Martinez, ora compositore di colonne sonore di alta scuola (Traffic e Drive, ad esempio). Si scopre anche questo conoscendo i Redhot.

Poi finalmente a fine Novanta rientrò Frusciante, regalando un paio di dischi ispirati come Californication (1999) e By the way (2002), ma anche un inutile doppio come Stadium Arcadium (2006). La celebrazione del gruppo da stadio, motivo per cui lo stesso se ne sarebbe riallontanato. Qualche buona canzone. Ma quella vena, quell’ispirazione, quell’innovazione, no. Era evidente che non c’erano più. E forse era proprio fuori luogo aspettarsela, cercarla in quei personaggi che stavano vestendo altri abiti. Il periodo discografico successivo all’abbandono di Frusciante l’ho praticamente ignorato, disinteressato da quel gruppo che ogni tanto sentivo distrattamente in qualche sottofondo radiofonico o televisivo e mi sembrava semplicemente invecchiato nella maniera in cui mai mi sarei augurato. Il mestiere a servizio dello stadio.

 

Bene, ma adesso sono qui che fremo, sperando in chissà che. Forse in un’innovazione? Forse in un tributo ai vecchi Red Hot? Forse cerco soltanto un brivido.

Unlimited Love, lo sappiamo, lo sapete tutti, è il titolo del nuovo atteso ritorno dei quattro dopo il rientro di John Frusciante che, parliamoci chiaro, è comunque una sicurezza sul timbro finale degli arrangiamenti e del gusto, oltre che chitarristicamente. Ci spero. Ho voglia di ascoltare un disco raro, unico. Play.

“Black Summer” è roba già nota, essendo una dei tre singoli che hanno anticipato l’uscita del disco. Emerge il colore di John, solito punto di forza e porto sicuro in mezzo ad una vena compositiva affievolita, pur essendo nelle mani di gente che suona benissimo, non sta di certo a me dirlo. Ma insomma, mi sa più di mestiere che di ispirazione. È un peccato sia la prima. Un peccato sia stata la prima dopo più di dieci anni. Frusciante arrangia, in mezzo al solito sound pazzesco che contraddistingue i Red Hot da sempre e stavolta meno plastico rispetto al solito, più sporco pur essendo pop.

“Here Ever After” parte già con un piglio diverso, alla “Fortune Faded” per intendersi, con basso plettrato, chitarra fuzz, fusti di batteria e stavolta una melodia vocale con qualcosa in più, così come l’arrangiamento sonoro e di mix grazie ai pad e alle finezze sonore sulla batteria. Sembra una canzone minore di Californication, che comunque non è poco. Ma la cosa migliore è ciò che avviene a canzone finita, con Flea che splettra da solo dando sfogo ai nervi e Chad che gli va dietro percuotendo i fusti. Il disco è il salotto di casa loro, gliene va dato atto.

“Aquatic Mouth Dance” è un tributo ai Red Hot che furono e lo si fa con Flea che spacca le corde del suo Jazz Bass, roba che è un piacere sentire. Qui c’è improvvisazione e cuore perché cantano nelle loro radici meno pop e rendono al meglio. Il ritornello è un tributo ai Funkadelic o agli stessi RHCP di “Love Rollercoaster”. Fiati liberi come fecero Maceo Parker, Fred Wesley e Bennie Cowan in “Freaky Stiley”, frasi di basso improvvisate e tese, nessuna preoccupazione per il minutaggio, canzone che finisce e bacchette poggiate sul bordo del rullante. Mi ci scappa un sorriso. Canzone spacca disco.

“Not the One”, terzo singolo, ha qualcos’altro nell’aria ed è innegabilmente il contributo etereo, malinconico ed armonicamente importante di Frusciante. La sua positività è talmente a giro che ne beneficiano tutti. Uno slow pop dal passo leggermente staccato e funk, senza distrarre le frecce nell’arco orecchiabile di Anthony.
Il solo di Frusciante, se “solo” si può chiamare, è un momento di arrangiamento in cui la chitarra gioca a fare tutto fuorché la chitarra stessa. Molto Pink Floydiana.

“Poster Child” l’avevo sentita qualche volta e mi era piaciuta, aldilà del simpatico aspetto citazionistico di Anthony, più per il senso di libertà che si respira in tutto il pezzo e di vena ispirata nell’arrangiamento e nella scrittura. Siamo nel territorio ancora dei vecchi RHCP di “Hollywood (Africa)” che si ispiravano a Sly & the Family Stone e che lo facevano con una facilità palpabile, che ti prendeva e ti portava dentro ai pazzi colori dei loro primi dischi. Per me è casa loro e forse è anche più casa mia. Ma i Peppers sono davvero a proprio agio.

“The Great Apes” comincia ed ho subito la sensazione che avrebbero potuto non metterla. Mi ricorda le cose più melense dei Red Hot ultimi e a metà canzone confermo la sensazione iniziale, nonostante una scansione batteristica inusuale che rende la composizione di certo non banale. Momento solistico di Frusciante che dimostra di essere bravo più che ispirato. Canzone forse anche divertente da suonare e da sentir suonare. Ma è davvero facile, troppo facile, e abbiamo bisogno di altro.

Ad esempio quello che succede con “It’s Only Natural”, che  ha quel sapore, nuovo, ispirato, con un gusto che curiosamente strizza l’occhio a qualcosa di Bowie, “Ashes to Ashes” su tutte, e avvolge. Il ritornello ha il solito sapore di coro Frusciantiano ed accordi dritti, ed un po’ annoia. Noto una lunghezza costantemente dilatata dei brani, finora piazzatasi sui quattro minuti e mezzo. Mi piace quando John si prende i soli e li capovolge come se fosse uno spruzzo di arrangiamento ed in questa canzone ricapita.

“She’s a Lover” è leggera e gestita in maniera impeccabile dai quattro. Ha stile, groove, timbro ed un taglio accattivante che la rende catchy pur non avendo alcunché di imperdibile. “These Are the Ways” è un capitolo schizofrenico laddove la strofa pop e malinconica si scontra col bridge e col ritornello che sono sicuramente più mossi, oltre che ispirati armonicamente, e di questo ne giova istantaneamente tutto l’album, creando un momento di trascinamento innegabile.

“Whatchu Thinkin’” è un downbeat funk in cui Flea tiene il groove con un linguaggio africano e davvero interessante, arrivando a simulare col basso una sorta di marimba, salvo alleggerirsi di un briciolo di interesse nel ritornello con un riff chitarristico comunque particolare e dal sapore più punk. Credo nel complesso sia uno dei punti più alti del disco.

È il momento del synth iniziale di “Bastards of light”, che introduce questa ballad dal sapore lievemente country, eccetto la bella perdita di controllo centrale. Parte l’ennesimo momento di cui ho paura per l’eccessiva somiglianza con i Red Hot più piatti: “White Braids & Pillow Chair”. Carina, mite.

Un facile fast funk accompagna “One Way Traffic”; dico facile perché me lo immagino frutto di una jam piuttosto istantanea dei 4 Peppers e facile anche per il ritornello col coro che cattura. Graffiante lo stacco centrale della canzone, una di quelle cose che diventano il vero biglietto da visita di una canzone da ricordare.

“Veronica” fa il verso in maniera più rilassata a “Snow (Hey Oh)”, riuscendo nell’ardua impresa di giungere ad un punto per certi versi più alto. La canzone è sempre leggera eppure ha un elemento di particolarità che la rende unica.  C’è un bel ritornello e soprattutto un bellissimo coro di John nella bella coda. Mi piace come l’aspetto citazionistico giochi ancora a loro favore; se “Sir Psycho Sexy” di Blood Sugar aveva nella coda e nel suo rimando agli accordi di “Because” dei Beatles un bellissimo collegamento, stavolta il pensiero si sposta di qualche traccia sempre all’interno di Abbey Road per assestarsi su “I want you”; ascoltare per credere.

Si sono divertiti a suonare, è evidente, e in “Let ‘Em Cry”, un funk posato, esce tutta la vena che ha pervaso la registrazione ancora di Frusciante, il quale riesce ad esibirsi in dei momenti solistici altissimi e mette sul piatto un gusto ed un tocco sopraffini. Questo è fare la differenza. Come trasformare una canzone di passaggio in un passaggio obbligato dalla canzone.

“The Heavy Wing” comincia con un bellissimo riff che lascia spazio a qualcosa di più largo e leggermente deludente su cui si struttura tutta la strofa, che poi totalmente deludente non è, ma è solo alto lo scalino fra i due momenti e non è la prima volta che succede in questo album. Salvo venir sorpresi da un ritornello interamente nelle corde di John; hard rock, distorsore e melodia vocale che regge tutto il pezzo. Il momento più rock dell’album.

Ed un po’ come accadeva in Californication con “Road Trippin’” anche qua si chiude con una parentesi acustica, “Tangelo”. Arricchita dall’armonia Zeppeliniana e dal bagaglio sonoro di Frusciante che la porta a spasso, allargando l’immaginario nelle nostre menti; la chiusura riesce ad avere un sapore classico e definitivo, curato abbastanza per chiudere il cerchio delle tante canzoni.

 

Arrivato a stringere un giudizio, faccio i conti con le aspettative e mi domando: erano tanto alte (cosa che parrebbe scontata) oppure erano basse e viziate da quello che era l’ultimo e deludente lavoro fatto da loro ovvero Stadium Arcadium? Questo è il punto.  Mi sa che mi aspettavo poco, e adesso l’ho capito. Mi è chiaro perché nonostante Unlimited Love non sia un capolavoro, alla fine il disco mi è piaciuto più di quanto pensassi. Credo onestamente che sia poco meno di un bell’album, non so dirlo meglio. Con dei punti altissimi e qualche solita banalità di composizione pop e scialba, ma la stragrande maggioranza del disco naviga in zone interessanti ed è zeppo di cose che tipicamente acquisteranno valore, simpatia e calore col passare degli ascolti.

Il guizzo del disco epocale non c’è stato, no. I Red Hot non sono i Radiohead, Damon Albarn o (fino ad un certo punto) i Pink Floyd che si sono reinventati, e come ipotizzavo all’inizio sicuramente è stato un errore anche solo pensarlo, ma c’è comunque consapevolezza, c’è amore per le proprie radici e quando queste vengono toccate riescono ad arrivare a livelli forse anche impensabili. Quindi alla fine il giudizio è molto positivo. Cercavo un brivido, no? Bene, perché ne ho avuti davvero tanti.

Rifletto allora su cosa sia il trait d’union dell’album, l’elemento nuovo che caratterizza il disco, ed è ovviamente lui, John. Non poteva che essere lui, che si parli di morbido suono chitarristico a cui è stato affidato il primo momento evocativo dell’album col suo inizio, o che si tratti di un suono di tastiera in grado di legare i vecchi Peppers ad un nuovo immaginario. Chad e Anthony hanno il loro timbro, il loro stampo che è una certezza con una manciata di ottimi contributi vocali e di scrittura melodica da parte di Anthony, anche se la maggior parte del tempo giocano a fare la cover di se stessi. Flea invece è quello che recepisce il messaggio lanciato da John e gli si lega, va oltre, ed in un paio di episodi (“Aquatic Mouth Dance”/ “Whatchu Thinkin’”) porta finalmente il suo basso ad un livello espressivo che si era perso almeno dai tempi di One Hot Minute. Ma è per il buon Frusciante, detentore del bastone e del concetto attorno a cui ruota il disco, che l’espressione Unlimited Love diventa il sapore dell’album stesso, passaggio fondamentale per poterlo distinguere nel nostro immaginario dagli altri dischi e potere ancora una volta emozionarsi immaginandosi di addomesticare quelle quattro strambe parole, RED HOT CHILI PEPPERS.