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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
04/10/2021
Toni Childs
Union
Spesso si dice che il primo album sia quello che rispecchia meglio un artista, poiché in seguito se si raggiunge il successo si deve scendere a compromessi…Ebbene Union sembrerebbe confermare questo adagio, con la sua originale collezione di momenti intensi, una delicata introspezione e alcuni brani dalla spigliata ritmica festosa a far da contraltare. Un disco che alimenterà il crescente interesse per la World Music, diffusasi proprio in quel periodo.

Utilizzare l’aggettivo “incredibile” può giustamente sembrare banale per definire un personaggio. Suona benissimo, in realtà, per descrivere non solo la carriera, ma pure la vita dell’estrosa Toni Childs, una delle più nere voci bianche mai esistite. Una voce immensa, appunto, densa, già “enorme” quando compie dieci anni. Nei suoi primi ricordi legati alla musica ci sono i battibecchi con la compagna delle elementari che la sgrida urlandole di cantare come tutti gli altri e il divieto di ascoltare rock and roll o lascività di quel tipo, pure di recarsi al cinema, imposto dalla famiglia. Lei, insieme ai tre fratelli, si sente letteralmente sovrastata dalla figura rigida della madre, fervida credente convinta che tutto sia luce, e dei nonni, missionari dell’Assemblies of God. Un clima che diventa insopportabile nell’adolescenza e la spinge a fuggire da casa, nel Nevada, per rifugiarsi qua e là in California, nel più pagano mondo degli hippie, ondeggiando in una loro comunità nel nord fino ad approcciarsi al gay village del quartiere Polk Gulch, a San Francisco.

Un concerto dei Pink Floyd nel ’72 la colpisce: vuole diventare una cantante. Il resto del decennio, dopo un arresto per droga con lo strascico di due mesi di penitenziario, lo passa nell'energizzante scena di Los Angeles, capitanando alcuni gruppi locali. La vera svolta avviene a inizio anni ottanta, quando innamorata dell’arte di Elvis Costello si sposta a Londra e firma per la Island Music. Nella capitale inglese comincia un momento molto importante per la carriera della Childs ed è fondamentale il contatto con David Rhodes, direttamente dalla band di Peter Gabriel che le fa scattare la scintilla per la commistione di generi, ciò che ora proprio da quei tempi viene chiamata World Music. Il nomadismo culturale, la contaminazione fra etnie diverse sono ora per lei il pallino espressivo e pubblica pure un singolo, di cui dopo tali premesse non è difficile immaginare il titolo: Africa.

Il ritorno in America e il conseguente arruolamento per l’importante casa discografica A&M del mitico Herb Alpert spianano la strada alla nascita di Union, nel 1988. Un disco pervaso dal sentimento, dalla fine introspezione, ma anche ricco di momenti allegri che si frappongono a delicate ballate. Un particolare da non sottovalutare, oltre al background musicale coltivato nelle esperienze sopra citate dall’autrice, è la meravigliosa storia d’amore che sta vivendo in quei giorni con il compagno di registrazioni David Ricketts, allora famoso per far parte con David Baerwald del duo rock losangelino David and David, appellativo che richiede anche qui un grosso sforzo di fantasia…

Un altro David che di cognome fa Tickle è alla produzione di quest’opera, interamente scritta dalla Childs, molto spesso insieme a Ricketts, in cui traspare in testi e musiche la vigorosa armonia tra i due.

Ne sono esempio le intime "Walk and Talk Like Angels", serena, fluttuante e tribale dal punto di vista ritmico e "Where’s the Ocean", pronta a sfociare in un candido romanticismo, capace di dare luce anche all’oscurità di un oceano profondo che diventa fonte di sicurezza e punto di arrivo e non ritorno, regno di felicità. Sensuale e ipnotica.

Il singolo "Don’t Walk Away", scritto a quattro mani con Phil Ramacon, è invece quanto di più potente e selvaggio si possa ascoltare, un torrido rhythm and blues screziato di funky-soul e arrostito dai fiati dei Phantom Horns. Oltre ad essere la canzone che apre le danze, è il vero biglietto da visita per la vocalità dell’artista, fenomenale e sorprendente. Insieme a "Stop Your Fussin" rimane il fulcro della raccolta, perfettamente a metà strada fra l’orecchiabilità da airplay per radio e tv e una ricerca sonora più impegnata che si collega a un altro pezzo che necessita di un’adeguata presentazione. Zimbabwae è un inno libertario e pacifista di rara bellezza, una danza esotica senza fine che nasce proprio nel sud dell’Africa, da una pazza idea di Toni, che riesce a convincere Tickle a immergersi in un viaggio in Swaziland (dal 2018 denominato eSwatini) e Zambia, e ad affittare un’unità mobile di registrazione per immortalare gli appassionati cori di un gruppo di lavoratori in un cotonificio a Bhunya.

 

“…can there be some peace on earth
can there be a love
greater than the world we see
greater than us all
it's the last station home
it's the last station home…”

“Potrà mai esserci un po’ di pace sulla terra, potrà esistere un amore più grande del mondo che vediamo, più grande di tutti noi, sarebbe l’ultima fermata per stare davvero a casa, l’ultima fermata per casa”.

 

Sono parole cariche di speranza, quanto mai attuali alla luce di quanto sta accadendo su questa povera Terra, irrobustite dalle voci sofferte, ma piene d’orgoglio e liete del collettivo vocale di cui si è parlato appena sopra e denominato per l’occasione Sibane Semaswati Singers, che insieme ai New Generation (Zambia) sono ospiti cruciali nell’album. Un altro fiore all’occhiello è rappresentato dal percussionista peruviano Alex Acuña, musicista a tutto tondo con le più disparate esperienze, dai Weather Report a Jackson Browne e Bonnie Raitt, fondamentale per alimentare il suono etnico e dare una forte matrice world al progetto: anche i “compagni” degli esordi londinesi David Rhodes e Steve Hogarth ne fanno parte. Le chitarre del primo s'insinuano dolcemente in "Let the Rain Come Down", dove la pioggia è metafora di cambiamento e si parla della possibilità di accettare positivamente la fine di un amore, con il segreto di custodire all’interno del cuore solo i ricordi belli e sfruttare le traversie per acquisire esperienza. Il leader dei Marillion contribuisce a instillare un che di etereo con le sue tastiere in un lavoro che in alcuni momenti risente degli anni ottanta visto l’uso di sintetizzatori e programmazione synclavier da parte di Gary Barlough, ma riesce a resistere al test del tempo per merito degli arrangiamenti azzeccati di Ricketts e Tickle. Ne è un esempio la ballata "Dreamer", uno dei capolavori nascosti del disco. A fronte di un testo che mischia il sogno alla realtà, lasciando risvolti agrodolci tipici del forte innamoramento con i suoi alti e bassi, primeggia un tappeto synth ammorbidito dal leggiadro cello di Hans Christian. La voce di Toni è qualcosa di sensazionale e avvolge tutta la melodia, dimostrando ancora una volta di essere il valore aggiunto di tutta l’opera che, occorre ricordare, ricevette la nomina per due Grammy Award nel 1988.

Registrato tra Malibù, Hollywood, Santa Monica, Parigi, Londra e Swaziland (eSwatini) Union racchiude il meglio espresso dalla Childs che, forte dell’inaspettato successo, confeziona tre anni dopo il pretenzioso House of Hope, dove la profonda sincerità e intimità di alcuni momenti si scontra con altri che sembrano più un compromesso per avere successo e in parte perde quel quid che la aveva caratterizzata all’esordio. L’Italia scopre l’autrice grazie a Zucchero: il bluesman emiliano scrive le parole per la versione nella nostra lingua della title track, che diventa "La Casa della Speranza" e la invita al Live at the Kremlin dove interpreta insieme a lui un brano di Jimmy Cliff, il classico "Many Rivers to Cross". Una canzone non a caso, dato che nel 1989 viene da lei incisa e pubblicata nella colonna sonora di Lost Angels.

Se nelle righe iniziali si è scomodato l’aggettivo incredibile e potrebbe essere già sufficiente per definire quanto finora narrato della vita e arte di Toni Childs, bisogna ancora raccontare che, dopo un altro album e un greatest hits corroboranti la carriera, arriva un brusco stop all’attività nel ’97 quando le viene diagnosticata la malattia di Graves. La scelta di trasferirsi alle Hawaii per curarsi risulta azzeccata e una decina d’anni dopo esce un lavoro dal titolo emblematico, Keep the Faith, in cui torna a collaborare con David Ricketts.

Ora questo formidabile personaggio vive in Australia, ha dato alla luce un altro paio di dischi, è tornata a suonare live, si batte per la salvaguardia dell’ambiente e collabora fattivamente per associazioni nate in difesa della donna e del rispetto del suo corpo.

Non ha mai dimenticato l’importanza della musica che le ha permesso, fin da piccola, come abbiamo visto, di vincere tutte le sue battaglie e le ha fatto trovare una forza interiore inscalfibile.

Perché un giorno senza musica è un giorno perso. E lei lo sa.