«Poi attraversiamo il tepore della cucina e lei mi dice di sedermi, di fare come se fossi a casa mia. Sotto il profumo di qualcosa che cuoce nel forno c’è una punta di disinfettante, candeggina forse. Toglie dal forno una crostata di rabarbaro e la mette a raffreddare sul piano della cucina: sciroppo bollente sul punto di traboccare, foglie sottili di pastafrolla saldate alla crosta. Dalla porta entra una corrente fresca ma qui è caldo, immobile, pulito»
Una fattoria nella campagna irlandese, una bambina silenziosa, un padre e una madre non suoi. Claire Keegan tratteggia un lessico sentimentale dell’accoglienza e dell’amore genitoriale, in un racconto di sommessa e struggente bellezza.
Mettetevi comodi sul divano, assaporate il tepore della casa mentre fuori l’aria è gelida, versatevi un bicchiere di vino rosso, di quelli che vengono chiamati “da meditazione”, e regalate a voi stessi un’ora, solo un’ora. Che è il tempo necessario per leggere le settantatre pagine di Un’estate, romanzo breve a firma Claire Keegan, risalente al 2010, ma pubblicato da Einaudi lo scorso anno.
Siamo in Irlanda, forse sono gli anni ’80, il contesto è bucolico, quasi sospeso, eppure si respira l’odore agro di una vita difficile, ai limiti della povertà, in cui gli affanni sono il duro pane quotidiano, nutrimento di un’umanità con troppi figli da sfamare, di piatti di patate e di pinte di birra, di quell’arte di arrangiarsi che fa la differenza fra sopravvivere o cadere nel baratro della tragedia (inevitabile che il pensiero corra a Le Ceneri Di Angela di Frank Mc Court).
Una famiglia indigente affida una delle proprie figlie a una coppia più abbiente, per sgravarsi di un peso economico, per attenuare le fatiche di un’esistenza ai margini, per affrontare la nascita di una nuova vita, che porterà più problemi che gioia, più tormenti che speranza.
Una trama esile, quasi insignificante, se non fosse per l’abilità della Keegan di costruirci intorno un mondo intero. Di sentimenti, di emozioni, di palpiti. La prosa è lineare, scarna, semplicissima, ogni riga è immediata e immediatamente comprensibile, nessun artificio, nessuna finezza lessicale. Eppure, ogni pagina è pura magia, che conquista, che strattona il lettore al centro della storia, come se fosse presente, osservatore muto di una geografia di sentimenti indispensabile nel suo francescano lirismo.
La voce della Keegan è sommessa, aggraziata, la narrazione un sussurro dolcissimo in cui è l’immagine a essere protagonista (la veglia funebre, la passeggiata sulla spiaggia, il pozzo, i profumi inebrianti di una cucina). Un viaggio a ritroso nel tempo, in un mondo antico in cui la grazia dei luoghi e l’evocazione delle tradizioni si scontrano con una realtà agreste, la cui bellezza trova il suo contrappunto in tragedie taciute, nel dolore che arriva dal passato, in un presente fragile, in cui la felicità profuma di torte, di corse a perdifiato, di acqua fresca e lenitiva. Un mondo in cui tutto, però, è caduco, temporaneo. Tranne l’amore, vero protagonista di una storia capace di scavare nel profondo dell’anima, senza strepiti, senza clamore, creando un flusso di dolcezza che infonde speranza, che ipotizza un futuro anche per un sentimento che, per quanto trattenuto, non potrà che esplodere in tutta la sua abbagliante intensità.
Una lettura per adulti e per ragazzi, per genitori e figli, i cui intenti restano ad altezza cuore per tutta la durata del romanzo, e il cui finale, agrodolce e liberatorio, racconta una verità tanto ovvia quanto ineffabile: l’amore genera amore. E quando il lettore chiuderà l’ultima pagina del libro, con la stessa nostalgia di quando finiscono le promesse dell’estate, mentre il traboccare della gioia si scontrerà con il tepore salato di una lacrima, il suo unico desiderio sarà quello di uscire di casa, correre dai propri genitori e abbracciarli in una stretta che toglie il fiato. Abbracciare la vita.