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REVIEWSLE RECENSIONI
17/11/2022
The Cult
Under The Midnight Sun
Dopo sei anni di assenza, i Cult tornano con un disco convincente e ispirato, solido e potente, figlio di un antico e glorioso marchio di fabbrica.

Dopo sei anni di assenza (l’ultimo disco pubblicato è Hidden City del 2016), i Cult sono tornati, e questa è una bellissima notizia per tutti quei nostalgici fan (compreso il sottoscritto), che non hanno mai smesso di amarli, nonostante siano passati quasi quarant’anni dal loro esordio. Se distribuissero ricompense per la perseveranza, non c'è dubbio che il cantante Ian Astbury e il chitarrista Billy Duffy, membri storici della band, sarebbero tra i principali contendenti. C’è infatti una lunghissima storia alle loro spalle e, tra alti e bassi, una longevità che non può lasciare indifferenti.

La band aveva sfondato commercialmente con il loro secondo album del 1985, Love, che includeva "She Sells Sanctuary" e “Rain”, due delle canzoni hard rock più memorabili di quell'anno (e forse del decennio). Da lì in avanti, la meritata fama, consolidata grazie ad altri due album notevolissimi, Electric (1987) e Sonic Temple (1989), che ampliarono l’esposizione mediatica dei Cult. Una musica, la loro, che era evidentemente ispirata ai gruppi rock classici degli anni '70, come i Led Zeppelin, ma che trovava nella voce profonda e cattiva di Asbury, nella chitarra rombante di Duffy, e in un mood spesso tenebroso, le peculiarità che ne elevavano la caratura, nonostante l’approccio derivativo.

Formatisi nel 1983 a Bradford, West Yorkshire, Inghilterra, il duo non ha mollato ed è sopravvissuto a due scioglimenti, che ne avevano messo a rischio l’esistenza in vita. Oggi, invece, tornano, più pimpanti che mai, con una formazione che comprende il batterista John Tempesta, entrato a far parte del gruppo nel 2006, il tastierista e chitarrista ritmico Damon Fox, che si è unito alla line up nel 2015, e il nuovo bassista Charlie Jones. La band ha lavorato a questo undicesimo album in studio, con le modalità che spesso hanno segnato i dischi nati nel periodo della pandemia, quattro quinti della formazione chiusi nei Rockfield Studios in Galles, dove i The Cult avevano registrato il loro album di debutto, e Astbury da remoto, a Los Angeles, negli studi dal produttore Tom Dalgety (Pixies, Ghost).

Niente di nuovo sul fronte occidentale: i Cult non hanno inventato nulla, e le otto canzoni in scaletta possiedono il potente suono hard rock degli inizi. Un marchio di fabbrica, insomma: sempre i Cult, ma nella loro versione migliore. Il disco si apre con il ritmo trascinante di "Mirror", batteria solida e un grande suono di chitarra, mentre cantano "we own the night", seguito da un ritornello che proclama "love, love, love". Un tuffo del cuore nelle nostalgiche acque del passato. "A Cut Inside" si apre con squillanti accordi di chitarra, mentre il basso e la batteria riempiono lo spazio aperto con un groove rimbombante, prima che tutto si sincronizzi in un solido ritornello, lasciando spazio a un grandioso e glorioso assolo di chitarra di Duffy. E così va, in modo affidabile, traccia dopo traccia, sviluppando cliché hard rock con piglio potente e robusto, che conquistano l’ascoltatore senza se e senza ma.

Con intelligenza, i Cult cercano anche di cambiare ritmo e velocità, per evitare che la scaletta finisca per essere troppo ridondante. Così "Knife Through Butterfly Heart" ammorbidisce i toni con una commovente intro di basso, e Astbury riduce la sua voce a un semplice sussurro, creando una tensione melodrammatica magnificamente orchestrata, mentre la conclusiva title track, è una ballata cupa e malinconica, probabilmente una delle canzoni più belle mai scritta dalla band.

Anche se non ci sono hit clamorose come in passato, Under The Midnight Sun suona solido e ispirato, e ci restituisce una band in palla, che sembra aver ancora molto da dire. Un disco, è il caso di sottolinearlo, che spiega molto bene per quale motivo molti giovani amino ancora il rock, anche se i loro eroi hanno ormai sessant’anni e più. Per i “vecchietti” all’ascolto, invece, questo è semplicemente un ritorno a casa, a quegli affetti profondi che durano una vita.