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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
05/07/2019
Live Report
Unaltrofestival 2019, 2 luglio, Circolo Magnolia, Milano
Verso la fine del suo set Julia Jacklin ringrazia il pubblico e dice che è bellissimo essere arrivata dove è arrivata, considerato che solo cinque anni prima l’unica cosa che desiderava era essere come Anna Calvi.

Stupisce un po’, questo paragone, vista la grande diversità della sua proposta da quella dell’artista britannica. In un aspetto però la ragazza australiana è riuscita ad avvicinarsi: personalità e tenuta del palcoscenico, unitamente ad un uso già parecchio esperto della voce, giustificano in pieno l’attenzione che il suo ultimo “Crushing” ha saputo suscitare un po’ dovunque. La sua prova è solida e convincente, aiutata e sostenuta da una band che senza strafare, offre comunque un efficace accompagnamento, così da spaziare da brani più orientati al Folk (“Body”) ad altri che contengono accelerazioni e sfuriate elettriche (“Pool Party”, “Good Guy”). Certo, quando subito dopo, Anna Calvi salirà sul palco, ci metterà pochi minuti a spazzare via quello che abbiamo appena visto; aggiungiamo che, ovviamente per quanto mi riguarda, non ritengo che la sua produzione abbia già tutti i requisiti giusti per svettare al di sopra di un genere, definiamolo “Alt Folk al femminile” che ultimamente appare anche parecchio inflazionato.

Detto questo, Julia Jacklin mi è piaciuta e mi ha convinto. In futuro, ne sono certo, alcuni interrogativi troveranno risposta.

Piuttosto, sarebbe il caso di parlare dei problemi di gestione della location, che ultimamente al Magnolia sembrano non mancare mai. La defezione all’ultimo di Jade Bird, impossibilitata ad esibirsi per un sopraggiunto problema di salute (la attendevo con grande impazienza, spero di rifarmi in futuro) ha fatto sì che tutto slittasse di mezz’ora ma, fatto di per sé assurdo, l’esibizione dell’headliner è stata anticipata di 30 minuti così che, di fatto, gli artisti precedenti hanno probabilmente avuto meno tempo per i loro set. Non solo, si è deciso di mantenere l’alternanza tra due palchi da sempre tipica di questa rassegna: peccato solo che la scarsa affluenza abbia portato a spostare il tutto sul palco più piccolo, con la naturale conseguenza di sistemare lo stage secondario nel famigerato buco all’interno, quello di fianco ai bagni, il palchetto minuscolo che viene di solito utilizzato per i concerti a bassa partecipazione. Risultato: 500 gradi all’interno e fruibilità limitata anche fuori, data la difficoltà di scorgere gli artisti su uno stage così basso. Lungi da me il voler criticare in maniera gratuita ma è oggettivo dire che le decisioni prese hanno pesato non poco sull’esito finale della serata.

Peccato perché Unaltrofestival, giunto alla settima edizione, è sempre stato un momento di eccellenza nell’ambito dei concerti estivi del nostro paese; quest’anno poi la line up, tutta al femminile, era particolarmente omogenea e valida a tutte le altezze del cartellone, offrendo una panoramica interessante su alcune delle artiste dell’ultima generazione.

Prima della Jacklin ci sono stati i genovesi Eugenia Post Meridiem, freschi di contratto con Factory Flaws e che avevo già visto in azione al Mi Ami. Il loro disco d’esordio uscirà ad ottobre ma i brani pubblicati finora come singoli stanno andando benissimo e la band ha già ottenuto la partecipazione ad eventi di grande importanza.

Nonostante le oggettive difficoltà logistiche, la prova di questi ragazzi è più che positiva: ironici e divertenti (i tre ragazzi, batterista, bassista e chitarrista, si presentano sul palco con improbabili parrucche argento), già particolarmente affiatati ed in possesso di un repertorio abbastanza maturo, con canzoni che si sviluppano in maniera per nulla scontata ed Eugenia, voce e chitarra, decisamente brava e consapevole. Se sapranno confermarsi alla prova del full length avremo senza dubbio molto di cui parlare.

Tra le nuove scoperte, è da segnalare anche il duo francese Videoclub, composto da Adèle Castillion e Matthieu Reynaud, entrambi diciassettenni ma con le idee già abbastanza chiare. Synth Pop romantico e vellutato, con un gusto tipico del loro paese d’origine, di cui utilizzano anche l’idioma. Hanno pubblicato tre singoli e i numeri importanti che stanno facendo su Spotify parlano di una realtà in costante ascesa. C’è ancora molto da sistemare nel loro live, a partire da una presenza scenica un po’ ingessata ma le canzoni le hanno sicuramente. Nel corso del tempo a loro disposizione infilano dentro anche due cover (“What Are You So Afraid Of” di XXXTentacion e “Shadow” dei Chromatics) che mostrano l’ampiezza e l’eterogeneità delle loro influenze. Anche per loro attendiamo il disco con trepidazione.

Anna Calvi dal vivo non l’avevo mai vista, per il semplice fatto che quando nel 2011 usciva il suo disco d’esordio e tutti ne venivano conquistati, io rimanevo tutto sommato indifferente. La ragione non la saprei dire, semplicemente non mi prendeva.

Non la seguii più fino all’anno scorso, in occasione dell’uscita di “Hunter”. Su quello sono capitolato anch’io, non posso negarlo. Al di là del valore del repertorio, della varietà delle influenze, che spaziano dal Blues, alla canzone d’autore europea, fino al rock esplosivo di Nick Cave, ad impressionare è stata la performance che è andata in scena. Accompagnata da una band essenziale, composta da un batterista (che si è occupato anche della programmazione elettronica) ed una tastierista, la Calvi ha caricato su di sé quasi tutto il peso del concerto, incendiando l’atmosfera con la sua ormai iconica Telecaster.

È un’esibizione intensissima, a tratti violenta, un ininterrotto flusso di energia che per un’ora secca aleggia sui presenti e li mantiene in costante tensione. Per sua stessa ammissione, non può durare a lungo, difficilmente riuscirebbe a sostenere un tale carico fisico ed emozionale.

La scaletta si snoda unicamente attorno al primo e al terzo disco, inanellando praticamente tutti gli episodi più importanti, quelli che da tempo costituiscono l’ossatura dei suoi concerti. A colpire, oltre alla presenza scenica impressionante, costantemente in bilico tra ieraticità e furia primordiale, è l’insieme perfettamente bilanciato di resa vocale e tecnica chitarristica: in poche parole, canta da Dio, senza il minimo cedimento e con controllo e potenza magistrale; allo stesso tempo, sprigiona soli e accordi a profusione, utilizzando la Telecaster più come un’arma da fuoco che come uno strumento vero e proprio.

La band le sta dietro, presenza discreta ma importantissima, che gioca un ruolo non indifferente nella creazione dei vari tappeti (particolarmente efficace il basso Synth, pulsante e inesorabile).

Ogni esecuzione è in sé un capolavoro ma se dovessi scegliere le mie preferite direi indubbiamente “As A Man”, intrisa del fascino scuro e del ritmo tribale del miglior Nick Cave, “Wish”, che dura quasi dieci minuti e che incorpora meravigliosi inserti rumoristi; oppure “I’ll Be Your Man”, perfetta esemplificazione della parte più classicamente rock della Calvi.

L’apice assoluto lo si raggiunge però alla fine, con quella “Ghost Rider” dei Suicide, la cui personale rilettura è da sempre uno dei momenti topici dei suoi concerti. C’è tutta l’atmosfera sospesa e inquietante della band di Alan Vega, accompagnata da un lavoro di chitarra superbo, con batteria e tastiera perfetti nel ricreare un pattern rumoroso e claustrofobico. Qui Anna è quasi in trance, il lungo svolgimento del brano è un’immersione da cui non si esce, una catarsi che sfocia in un’esplosione finale di accordi, mentre col palco ancora avvolto dal rumore dei feedback, mostra al pubblico la sua chitarra, in segno di congedo.

Ho capito meglio perché Julia Jacklin vuole essere Anna Calvi. Impossibile non voler essere Anna Calvi. Altrettanto impossibile, ma purtroppo tristemente reale, che sia andata così poca gente a sentirla. Forse dovremmo ribadirlo con maggiore insistenza: assistere ad un concerto di Anna Calvi è quanto di meglio potrebbe capitarvi nella vita.


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