L’hanno già scritto, che prima o poi bisognerà creare un genere a parte per tutti quei dischi concepiti e realizzati durante il lockdown o comunque durante questo anno che ci stiamo trovando a vivere e che somiglia sempre di più ad una normalità accettata con rassegnazione.
Nel caso di Carlo Pinchetti i fattori in gioco sono stati essenzialmente due: da una parte il desiderio, troppe volte rimandato, di realizzare un disco solista; dall’altra, la consapevolezza che con le restrizioni imposte dalle norme anti Covid, suonare in elettrico e in full band sarebbe stato quanto meno complicato. E così, tra una diretta Facebook (solo all’inizio però, quando il mood generale era tutto sommato positivo) e un live estivo in solitaria e in acustico, le canzoni di questo lavoro hanno lentamente preso forma. Qualche cosa c’era già prima, il grosso si è concretizzato la scorsa primavera, con il periodo di stop forzato che è arrivato provvidenziale (se così si può dire) per fornire il tempo e gli spazi necessari alla creazione di questo progetto.
“Una meravigliosa bugia” segna dunque l’esordio di Carlo Pinchetti da solista ma è allo stesso tempo un ulteriore passo di un cammino artistico ricco e sempre molto omogeneo, dai Daisy Chains ai Finistère, ai Lowinsky (momentaneamente congelati ma pronti a tornare non appena le circostanze lo permetteranno), all’insegna dell’incondizionata fedeltà allo stile “Indie Rock” quando era ancora una categoria che significava qualcosa.
Il disco ha preso forma lentamente, una canzone dopo l’altra, registrato dallo stesso Carlo a casa sua, passato poi nelle sapienti mani di Pierluigi Ballarin (forse qualcuno si ricorda dei The Record’s, una delle più belle espressioni del rock Made in Italy degli ultimi anni, che avevano come bassista un certo Pietro Paletti) che lo ha mixato all’Unnecessary Recordings di Bologna. E una notevole copertina di Yasmine Parisio a fornire un accompagnamento visivo non da poco, soprattutto in questi tempi di musica liquida.
C’è un che di colloquiale e spontaneo in queste canzoni ma allo stesso tempo la cura e la pulizia del suono sono notevoli, con la chitarra acustica mai così autorevole, a fornire la principale linea narrativa e al contempo a fungere da fondamenta all’intero lavoro. E poi i differenti strati, aggiunti in dosi diverse a seconda dell’episodio, sempre in perfetto dialogo tra loro, che vanno ad impreziosire le melodie e a sottolineare l’intensità di alcuni passaggi. Ottime le chitarre elettriche, suonate quasi tutte da Carlo (in “Morta” c’è lo stesso Pierluigi Ballarin) che sa farle parlare con la voce giusta, mai troppo graffianti ma con intensità notevole, l’ideale per un lavoro dall’anima essenzialmente unplugged.
Splendido è anche il violoncello di Elena Ghisleri, davvero importante nell’economia di certi episodi, le percussioni di Marco Brena (che suona nei Vanarin, altra bellissima realtà di cui bisognerebbe prendere maggiormente coscienza) e le seconde voci di Linda Gandolfi, moglie di Carlo e sua occasionale partner artistica, che se la cava benissimo e anzi, fornisce quello spessore e quella espressività in più di cui lui stesso abbisogna e che un po’ manca nei Lowinsky (ricordiamoci ad esempio come funzionavano bene le doppie voci nei Finistère).
E poi il featuring che non ti aspetti, quello di Gigi Giancursi, un rapporto nato in maniera spontanea e sfociato in un concerto assieme quest’estate a Bergamo. L’ex Perturbazione apre e chiude il disco, prima con semplici quanto efficaci inserti pianistici nell’atmosfera straniante di “Lacrime”, poi suonando la chitarra elettrica e cantando una strofa in “Credere #2”, il brano probabilmente più disilluso dell’intero lavoro; qui Gigi è bravissimo a dialogare con l’interlocutore principale, cercando di offrire una prospettiva di speranza che però, a giudicare da come finisce il pezzo, non sembra venire colta.
Ci sono episodi decisamente riusciti come “Sceglie di andare”, resa ancora più struggente dal gran lavoro del violoncello, o il singolo “Fuori di me”, che si riempie gradualmente di strumenti in una progressiva crescita di intensità; e ancora “Strade vuote”, che è forse il brano più elettrico del lotto.
Interessante è poi “Morta”, che riprende in qualche modo l’esperimento di messa in musica della parola poetica, tentato con “L’ennemi” ai tempi dell’Ep d’esordio dei Lowinsky. Questa volta però il documento è ancora più significativo perché ad essere tramutato in canzone è un breve componimento di Giulio Pinchetti, lontano parente dell’autore, morto suicida a 26 anni e appartenuto alla storia fugace ma niente affatto secondaria della Scapigliatura.
C’è anche una cover di “Here Comes a Regular”, classico dei Replacements suonato parecchio dal vivo in quest’ultimo anno, nelle varie dirette e nelle fugaci apparizioni live, doveroso omaggio a quel Paul Westerberg che assieme ad Alex Chilton è uno dei fondamenti su cui Carlo ha costruito il proprio repertorio.
Melodie non sempre immediate, per nulla ammiccanti nonostante il contesto di scabra semplicità. C'è un senso di malcelata stanchezza, una sorta di rassegnazione senza nome, un'amarezza mai specificata che a tratti sembra riflettere la situazione presente, a tratti pare meditare su rapporti finiti e occasioni perdute.
È una meravigliosa bugia, la musica. Ci inonda di bellezza e belle sono appunto queste canzoni ma è difficile abbandonare la sensazione che tutto questo non basti, che occorra ben altro per farci uscire dal cammino tortuoso che abbiamo intrapreso.
Sarà già qualcosa aspettare l'estate, ascoltare questo disco dal vivo e, chissà, magari un giorno potremo anche tornare ad abbracciarci.