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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
29/11/2019
Alessio Arena
Una canzone di pietra, un deserto di sabbia, un fiore di vita
“La musica, quella che davvero ci parla e racconta qualcosa di noi che magari non avevamo ancora scoperto, resta, eccome. Bisogna ricordarlo: la musica non solo resta, ma resiste”. (Alessio Arena)

Non importa quando il viaggio abbia inizio. Importa invece che porti con se la magia dell’incontro, che semini questo tempo che scorre e che siano semi di vita nuova e di nuovi ritorni. Non importa quanto sia arida la terra… credo sia più importante quanto siano fertili i nostri occhi, quanto tremi la mano nell’emozione di toccarla, quanto sia incosciente e bambino il nostro passo nel tentativo di calpestarla. E allora non esiste ritardo, come dico in una mia piccola canzone… ti prego solo di lasciarmi arrivare in tempo, vita mia, qualsiasi esso sia. Ed è con questa preghiera laica che approdo alla lettura del nuovo disco di Alessio Arena, al mio certo modo di carezzare le sue canzoni che in questo disco “Atacama!” sono come preziosi piccoli piccoli ma che fanno grande la luce che riflettono attorno. Ed ha ragione lui quando dice che la musica resta, anzi resiste… quando è la musica stessa a farsi manifesto e celebrazione santa della vita dell’uomo, più che eucarestia di effimera estetica per i benpensanti del marketing pubblicitario.

“Atacama!” è un’opera che giudico importante (e per alcuni aspetti salvifica) per questa nostra scena della canzone d’autore italiana, frutto di un’esistenza che vive tra Napoli e Barcellona, tra l’Italia e il Cile, tra le città industriali e il deserto dell’America del sud. E Arena si fa pellegrino e partigiano, ci canta in italiano, in spagnolo, in napoletano, si veste di umiltà ma dimostra una forza poetica che dovrebbe invitare alla contemplazione. Ospita i Quartieri Jazz e le voci di Manuel Garcia e Marta Gómez, disegna melodie assai forti, pregne di quella ruggine che arriva dalle terre di confine, dai quartieri ultimi. Il suono piccolo, il suono puntuale, il suono ancora sporco di terra, il suono coccolato da tante mani artigiane che hanno lavorato alla produzione dov’è protagonista quasi sempre la sua chitarra che ha quel peso ingombrante di un’antica tradizione popolare, dove quella forma canzone non paga il debito a nessuno per esistere e tutte le voci che arredano i brani sono complici equipollenti. Ed il suo non è solo un canto, ma lo avverto proprio come una preghiera laica - appunto - rivolta senza veli a quel dono inesplicabile che è la vita.

Ringrazio la redazione di Loudd che, senza saperlo, mi regala la responsabilità di incontrare nuova musica sempre e che, senza dirmelo, mi restituisce la libertà di raccontarla come piace fare a me, senza etichette, dando libero sfogo alle visioni di un suono che arriva dall’aria.

E avrò l’onore e la fortuna di incontrarlo, Alessio Arena, il 19 Aprile a Pescara, a due passi da casa, ospite della “Scuola Macondo” di quel Peppe Millanta amico mio, scrittore e anima buona di cui vi ho già raccontato proprio su queste pagine.

E avrò il desiderio di fermare Alessio Arena e le sue canzoni gitane (figura allegorica che mi piace assai nel suo significante e che non vuol fare riferimenti di stile con il suo significato) e voglio provare a riconoscere quanti romanzi nascondono le sue canzoni. Presto mi fermerò a leggere anche i suoi libri… che chissà quante canzoni suonano dentro le sue pagine.

Smettiamola con tutta questa indifferenza. Smettiamola di aderire soltanto alle mode. Quanta bellezza esiste dietro l’angolo di quella piazza della città vecchia

“Il successo può essere pure trovare un fiorellino in un paesaggio apparentemente desertico. Io, con gli anni, ho imparato a godere delle cose che già miracolosamente sono apparse alla portata delle mie mani” (A. Arena)

Ecco. Inizio proprio dall’inizio, e non è così scontato oggi. Un disco che resta. Ormai quasi lo conosco a memoria… ed oggi che non resta più niente penso sia un complimento importante, per quel che valga detto da me… iniziamo da qui allora. Complimenti a parte, cosa ne pensi? Oggi non resta niente… la musica non resta...

Sono un idealista, ti avverto. E stasera ho pure cenato bene. Per questo vedo il mondo e il futuro prossimo con occhi più indulgenti. Lascia che ti contraddica subito: non sono d’accordo. La musica, quella che davvero ci parla e racconta qualcosa di noi che magari non avevamo ancora scoperto, resta, eccome. Io questo lo noto non solo nel vigore e l’autorevolezza della canzone d’arte dei grandi maestri, anche quelli non troppo lontani da noi, nel tempo, ma lo vedo anche quando l’impronta di quest’eredità viene reinterpretata nel lavoro dei canzonisti attuali. È facile perderseli, non arrivare subito a conoscere il loro lavoro, per il marasma che è internet. Ma ci sono, e bisogna ricordarlo: la musica non solo resta, ma resiste.

Il Cile, la Spagna… cosa ti spinge verso queste terre che per tanta parte sono così lontane dalle nostre tradizioni? Che poi tu, da buon figlio d’arte, dovresti esser nato sotto la grande musica popolare italiana…

Per quanto sia impossibile scappare dalla propria biografia, quando si cerca di creare un qualsiasi prodotto artistico, ti dirò semplicemente che io sono un figlio d’arte tardivo. Nel senso che ho incontrato parte della mia famiglia, quando ero già grande, e avevo immaginato per me altre radici. Quando insomma un piccolo grande viaggio verso la mia identità, non solo musicale, l’avevo già cominciato da solo. Sono un progetto disastrato di latinoamericanista: ho letto, tradotto e imitato gli autori di un continente che per me, da quando ho imparato a leggere, è quello di tutte le storie possibili. In questo senso, anche Napoli potrebbe essere una città latino-americana, così vicina alla sua fine, terribilmente splendida dei bagliori di ciò che sembrerebbe una ultima luce. Il fatto è che in America Latina non ci ero stato mai. Poi sono partito per un lungo tour, qualche anno fa. Passando per il Cile mi sono innamorato.

“Atacama": oltre ad un deserto ben preciso, è una parola che a leggerla come terra che abbiamo sotto i piedi si finisce per intraprendere un viaggio che non ha fine. E tu il viaggio lo hai fatto per davvero… questo disco lo è… a prescindere dalla meta, si viaggia per bisogno di fuggire o per salvarsi, riconoscersi, trovare un equilibrio?

Per sopravvivere, spesso. Il viaggio è un gesto naturale dell’essere umano che non accetta la sedentarietà e che ha il vizio della speranza, che sogna di poter fiorire in un posto diverso da quello in cui è nato. Quando ho attraversato il deserto, l’ho trovato fiorito. Tanto che poi, nella canzone che gli ho scritto, quella che dà titolo al disco e che canto insieme a Manuel García (una vera star, apprezzatissimo in Cile) dico: “Terra, per favore, dammi un abbraccio”.

Te lo chiedo perché spesso i dischi sono “scomodi”, sono ascolti estetici ma che poco rappresentano cosa c’è davvero di umano e di spirituale. Spesso assomigliano poco alle persone che lo hanno generato. In questo lavoro invece mi pare proprio di vedere l’approdo, l’arrivo in un “Atacama” in cui hai trovato la tua personale risoluzione. Insomma… tutto questo disco sembra essere un arrivo a te stesso…

È bello e magico che tu l’abbia visto così. Nel nord del Cile ho scoperto una pagina dimenticata della già amplia letteratura dell’emigrazione italiana. Ho conosciuto e raccolto storie di emigranti lucani e napoletani, arrivati nel deserto per lavorare in miniere di salnitro e che hanno costruito e fatto crescere la città di Iquique, la più importante della regione. È per questo che, in un luogo così recondito e diverso, per me, mi sono sentito a casa, o meglio mi sono domandato cosa sia veramente il sentirsi a casa, e il viaggio si è ripiegato su una dimensione di ritorno. Itaca somiglia molto a Napoli, perché è facile andarsene, ma molto complicato tornarci.

Ci sono due perle da maneggiare con cura, almeno per me. La prima è “Parlo di noi”. Perché questo pianoforte antico, quasi dissonante, quasi rovinato? Ho avuto la sensazione che la musica fosse sulla corteccia di un altro emisfero rispetto al testo… e i due si incontrano, come gli amanti, come l’amore… si incontra in questa canzone…

Nei miei precedenti dischi, soprattutto in “Bestiario familiare”, inciso tra Napoli e Barcellona, avevo lavorato molto con una pianista catalana, Clara Peya, che usa lo strumento come una voce propria, riconoscibile. Dopo anni ho incontrato Luigi Esposito, pianista napoletano, e ho sentito che sarebbe successo qualcosa di simile e che avrei dovuto affidargli questa canzone.

La seconda è “La canzone di pietra”. C’è questo splendido arrangiamento di fondo di chitarra slide e tanto altro che mi porta via dalle pietre e dal romanticismo… sospensione, quasi una realtà parallela, di quelle sensazioni che hai quando hai la coscienza alterata… me ne parli?

È una canzone molto dura. In un disco che parla di viaggi liberi tra culture e identità musicali, ho pensato di raccontare anche i viaggi obbligati. Della fuga dalla distruzione, che nel Mediterraneo, purtroppo, incontra spesso un epilogo ancora peggiore.

Restando sempre su questo brano colgo l’occasione per sottolineare il mix degli strumenti che restano molto dietro, compatti, a tratti - nei momenti più dinamici - sembrano confondersi senza caos… a differenza per esempio di “Diablada” in cui tutta la struttura ritmica la sento molto presente e be più scissa nelle sue parti. Non so se ho un ascolto corretto, nel caso ti chiedo scusa… ma così colgo l’occasione per chiederti della produzione che non è solo una farina italiana se non sbaglio…

Per un disco così, per la storia che volevo raccontare, non potevo rinchiudermi in un solo studio e affidare la produzione delle canzoni ad una sola persona. Da Ñuñoa, a Santiago del Cile, al Rione Sanità di Napoli, passando per Can Baró a Barcellona e il quartiere porto di Málaga, il disco mi ha preso tre anni di lavoro e vede la collaborazione di Arcangelo Caso, Bruno Tomasello, Luigi Esposito, Toni Pagès, Giovanni Block come produttori.

E mi è inevitabile pensare al sociale quando ascolto “Los Niños Que Vuelan” e soprattutto, quando “torni a Napoli”, mi è impossibile non pensare alla letteratura di Enzo Avitabile… e io ora torno a quell’immaginario se penso alla contaminazione tra popoli partendo proprio da Napoli… che ne dici?

Amo molto diversi lavori di Avitabile e la sua sensibilità nel parlare di alcuni temi scomodi. I bambini che volano di questa canzone sono quelli che, come diciamo noi “nun tèneno né cielo ’a vede’ né terra ’a cammena”. Li ho incontrati a Buenos Aires, a Santo Domingo, ma anche nel Raval di Barcellona, e in tutti i quartieri di Napoli dove sono cresciuto.

Non ti annoio oltre… mi piacerebbe incontrare qualche tuo romanzo e penso proprio che lo farò. Ecco: qual è la dimensione migliore per te? La parola scritta o quella cantata?

Il mio lavoro in questi anni, e spero di averne ancora per molto, è stato cercare di intuire uno spazio dove entrambe coincidessero. Io mi sono sempre immaginato come uno scrittore, pur essendo stato cresciuto da una nonna analfabeta. Ma credo che un romanzo, pur essendo il più complesso e completo e complicato ordigno artistico che possa esserci, è comunque a un grado zero della sua potenzialità narrativa quando viene pubblicato. Per questo, per presentare i miei romanzi scelgo di costruire attorno ad essi dei veri e propri recital, in una visione di letteratura ampliata, che si possa cantare, dire, recitare, per portarla in scena. Lì il romanzo diventa canzone, o la ingloba, che va pure bene. Diciamo che nei miei romanzi ci sono un sacco di canzoni. E che nei miei dischi pure potresti trovare gli indizi di diversi romanzi.

Oggi c’è tanto, non resta niente e niente ha la forza di restare. O forse hai ragione tu quando parli di resistenza. Chiudiamo questa piccola chiacchierata proprio da dove l’abbiamo iniziata… lasciandomi ispirare anche dall’immagine di copertina: sei un astronauta atterrato su un paesaggio straniero, desertico, dove non c’è nulla e che paradossalmente ispira tanto… ma di fronte al nulla, io penso, non c’è reazione. E per davvero oggi non c’è reazione nelle persone… come ti confronti, come ti poni davanti al muro di indifferenza che spesso ripaga la voce di un artista… oggi soprattutto?

Fortunatamente per me, la dosi di ottimismo che avevo all’inizio mi dura ancora. Io ho trovato molta indifferenza nella mia piccola e invisibile carriera. Ma ci sono state anche tante, tantissime illuminazioni. Il successo può essere pure trovare un fiorellino in un paesaggio apparentemente desertico. Io, con gli anni, ho imparato a godere delle cose che già miracolosamente sono apparse alla portata delle mie mani.


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