Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 1908 – Torino 1950) non ha bisogno di presentazioni, è stato uno degli intellettuali italiani più influenti del XX secolo. Scrittore, poeta, traduttore e critico letterario. Ci ha regalato pagine meravigliose come “Dialoghi con Leucò”, “La casa in collina”, “La bella estate”, “La luna e i falò” e il suo diario, “Il mestiere di vivere”, pubblicato dopo la sua morte, a cui aveva affidato i suoi pensieri più veri, privi di “censura”, quelli che lo avevano accompagnato per ben quindici anni, fino agli ultimi giorni della sua vita.
A tutto questo, va a sommarsi il lavoro come consulente editoriale svolto per Einaudi nella sede torinese e, per un breve periodo, a partire dal 1945, anche in quella romana.
Ed è proprio presso la sede romana in Via del Vicario che incontrerà Bianca Garufi (Roma, 1918 – Roma, 2006) che all’epoca si occupava delle attività di segreteria.
Quando si conobbero, Cesare aveva 36 anni ed era già uno scrittore affermato, mentre Bianca ne aveva solo 26 e si trovava in una fase incerta della sua vita, con un matrimonio praticamente finito sulle spalle (si separerà legalmente da suo marito nel novembre del 1947) e un percorso professionale tutto da definire.
Probabilmente, quella di Bianca Garufi, ancora oggi, è una figura poco conosciuta: nata e cresciuta a Roma, dove studiava in collegio, aveva origini siciliane e apparteneva a una famiglia aristocratica. Durante la Seconda guerra mondiale prese parte attiva alla resistenza e a partire dal 1944, fino al 1958 lavorò per Einaudi. Scrittrice, traduttrice e poetessa, nel 1951 si laureò in lettere e filosofia con quella che fu la prima tesi in Italia su Jung. In seguito, esercitò la professione di psicoterapeuta e divenne vicepresidente e membro attivo dell’Associazione Internazionale di Psicologia Analitica.
Una donna intelligente, complessa e al tempo stesso affascinante e non c’è da meravigliarsi se Pavese se ne innamorò.
Quello tra Pavese e la Garufi è stato un rapporto molto importante, oserei dire profondo e vero; il contenuto delle loro lettere, ne è lo specchio. C’era superficie, certo, ma anche e soprattutto abissi, perché quando si desidera conoscere veramente qualcuno, ci si deve immergere totalmente nell’altro e lasciare che anche l’altro faccia la stessa cosa con noi.
La scrittura, in un certo senso, ha il potere di trasformare il limite della distanza fisica in un’opportunità di apertura e vicinanza all’altro; un’opportunità che aiuta a spogliarsi da quell’imbarazzo che spesso e volentieri ci porta a non esternare quei pensieri che, pur galleggiando nella nostra mente, restano imprigionati nella rete delle nostre paure. Quelle stesse paure che, il più delle volte, ci fanno “giocare” in “difesa”, e non ci consentono di abbandonarci completamente all’altro, nonostante il desiderio di farlo.
Ecco perché la scrittura era per entrambi - soprattutto per Pavese, in verità - un mezzo per raggiungere la libertà emotiva e spalancare le finestre dei loro cuori tormentati.
Bianca e Cesare si scambiavano sempre lettere, anche nel periodo in cui si incontravano tutti i giorni negli uffici di Einaudi; ancor di più, quando si ritrovarono a vivere in due città differenti e anche dopo, quando il loro rapporto d’amore si trasformò in altro.
Due personalità opposte per origini, vissuto e soprattutto temperamento. Una coppia discorde, certo, ma allo stesso tempo bellissima. Il loro rapporto potrebbe essere descritto con una frase di Julio Cortázar: “…ci amavamo in una dialettica di calamita e limaglia, di attacco e difesa, di pelota e di muro.”
Cesare è un uomo schivo, ombroso, duro, senza filtri, diretto nelle sue esternazioni; dotato di una cultura straordinaria. Ironico. Sa essere pungente e spesso “maltratta” Bianca, la sprona, perché vede in lei grandi potenzialità e “critica” il suo essere discontinua e poco affidabile sul lavoro e per certi versi, anche nella vita, perché sembra non riuscire a trovare mai una direzione certa, che le appartenga davvero.
Le assegnava lavori di traduzioni per conto di Einaudi e lei, sovente, non rispettava le scadenze o lasciava il lavoro a metà. Ecco perché, proprio per metterla in guarda sulla sua incostanza, la canzonava chiamandola “A rolling stone”, il sasso che rotola (senza una meta).
Ma nonostante i lati ruvidi, da queste lettere, emerge anche un lato “tenero” dell’uomo Pavese, carico di passione e sentimento. Il 25 novembre 1945 le scriveva: “…ma hai torto a dire che non saprò diventare come vuoi. Devo diventarlo, perché non voglio che la nostra storia somigli alle altre che ho bruciato. Dimmi tu come fare. Io ti seguirò come la regola, per quanto mi costi.”
Il 23 febbraio del 1946, le scrive: “Seducimi”; il 7 marzo del 1946 le scrive: “Grazie, cara sorellina, ma io credo che sarà più proficuo tra noi il rapporto amanti-in-lotta, odi-et-amo, Alla sua donna, baci – morsi.”; e il 20 marzo del 1946, le dice senza mezzi termini che la ama: “Ti amo cara. Cerca di aiutarmi anche tu.”
Bianca, invece, al contrario di Cesare, è solare ed estroversa. Emana luce e Pavese ne è attratto, perché quella luce e quella “spensieratezza”, lo nutrono. È libera, non è imprigionata in schemi mentali o comportamentali e tende a vivere giorno per giorno, stancandosi presto di tutte le cose che comincia. Un’anima spesso in burrasca, dominata da umori altalenanti. Non ha mai paura di esternare quel che prova e vede in Cesare una guida, un maestro. Lo ama, lo stima, lo desidera, lo cerca, lo vuole accanto a sé e non misura le parole. Si lascia andare. Il 21 ottobre del 1945 gli scrive: “Ho cominciato a prendere coscienza che noi due, per me, era qualche cosa che esisteva.”
Lo “provoca”: “Quello che mi dispiace è non aver ancora ricevuto un solo rigo tuo. Ti sento lontanissimo e non so che strano vuoto mi lascia questa sensazione… Non ti scriverò più se prima non avrò ricevuto tue notizie.”; lo “rimprovera”: “È peccato che non si possa pensare a te con dolcezza e mi fai pena che tu non possa pensarmi con dolcezza. Perché sei così inviperito? Perché non ti fidi di me? Ti ho ingannato forse qualche volta?”
Però, anche se certe volte si sente ferita, lo perdona sempre, perché ciò che prova per lui sembra essere più forte di tutto il resto.
Sono l’uno il punto di riferimento dell’altra, condividono il loro quotidiano tra pensieri, letture e progetti ma anche tra scaramucce e istinto di protezione. Il 21 ottobre del 1945, Cesare scriveva a Bianca: “Tu sei veramente una fiamma che scalda ma bisogna proteggere dal vento. A volte non so se un mio gesto tende a scaldarmi o a proteggerti. Anzi allora m’immagino di fare le due cose insieme e questa è tutta la mia e la tua tenerezza come una cosa sola.”
Così, eccoli qui, l’uomo Pavese e la donna Garufi, “nudi”, spogliati della loro immagine pubblica, di ogni infrastruttura o maschera sociale; sono tra le righe delle loro lettere, mescolati ai loro pensieri, alle loro fragilità, ambizioni, paure, desideri e turbamenti.
“Una bellissima coppia discorde” è un libro a cui bisogna approcciarsi con il cuore aperto, piano, in punta di piedi, per non violare l’intimità del dialogo tra due persone che si sono amate con verità e dedizione.
Questa non è una “semplice raccolta” delle lettere che i due si scambiarono tra il 1945 e il 1950, ma è un documento preziosissimo che ci racconta un pezzo di vita dei due protagonisti (per Cesare Pavese, l’ultimo tratto) e allo stesso tempo ci offre uno spaccato su quello che era il fermento culturale dell’epoca.
Tra le sue pagine, ad esempio, si può assistere alla nascita di “Fuoco grande”, opera incompiuta, scritta a 4 mani da Bianca e Cesare, pubblicata postuma nel 1959, per volere di Calvino (che era collega di Pavese in Einaudi) e “Dialoghi con Leucò” (scritto tra il dicembre del 1945 e il marzo del 1947), il libro più amato da Pavese e, paradossalmente, quello meno apprezzato dai lettori e dalla critica del tempo, che lo accolsero con una certa freddezza, cosa che lo ferì profondamente.
Fu proprio Bianca la musa ispiratrice dell’opera (leukôs, in greco, significa bianco) ed è a lei che Cesare faceva leggere i suoi dialoghetti (come li chiamava Bianca), man mano che li componeva. In una lettera del 18 dicembre 1945, Bianca scrive: “Caro Cesare, ho letto un paio di volte quel maledetto dialogo e ho dovuto piangere…”; e Pavese, il 2 aprile del 1946: “Io scrivo un altro dialoghetto e il fatto che ormai si chiamano Dialoghi con Leucò mi schiarisce le idee; che ne diresti di dedicarli – a Leucò -?”; e ancora, il 29 agosto 1947 scriveva:” Sta per uscire Leucò. Ne riceverai una bella copia in carta da panettiere, sta’ tranquilla.”; e potrei continuare ancora…
Nella sua ultima lettera a Bianca, datata 3 febbraio 1950, scriveva: “I libri che faccio probabilmente non piacciono a nessuno, benché molta gente dica bene di me e, non so perché, si picchi di temermi – temermi come influsso, come potenza, come – in definitiva – impiegato presso un editore. Mi sento come le principesse di una volta che non riuscivano mai a farsi amare per sé stesse ma sempre e soltanto per la posizione.”
Probabilmente, non fu un caso se in quella notte tra il 26 e il 27 agosto del 1950, quando Pavese si tolse la vita con una dose eccessiva di barbiturici, scelse di affidare le sue parole d’addio proprio al frontespizio di quel libro per lui così importante, ma allo stesso tempo poco compreso e gradito dalla “platea” che, a torto o ragione, decreta sempre il successo o l’insuccesso di un’opera d’arte: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.