Nelle ultime settimane sto leggendo quello che, ad ogni pagina, si avvicina a grandi passi a diventare uno dei miei libri preferiti. Si chiama Passar la vita a Diol Kadd, lo ha scritto Gianni Celati. Racconta, in undici taccuini che Celati ha appuntato in tre anni, la vita in questo sperduto villaggio del Senegal.
“Diol Kadd è un posto così poco considerato che non esiste su nessuna carta geografica e gli amministratori regionali hanno persino deviato un fiumiciattolo che gli passava accanto”.
Questo è per far capire bene di cosa stiamo parlando.
Poi però, prosegue Celati, “nella desertificazione incombente, la denudazione dei terreni produce effetti secondari, forme di vita impreviste. La varietà di piante che attecchiscono farebbe concorrenza ai più grandi giardini botanici del mondo”.
Ecco, il cardine dello scrivere celatiano sta esattamente lì: come ebbe a dire in una intervista, “A Diol Kadd le persone hanno il cuore in pace. E io non ce l’ho.”
Tutto il libro è un racconto a cielo aperto di un mondo talmente fuori dal tempo da essere attuale con una potenza devastante. Ed è un modo di stare al mondo talmente contagioso che finisce per pervaderti.
Perché “Alla fine m’è parso che le situazioni da filmare fossero quelle a cui nessuno bada: cioè le ore del giorno, dal primo mattino alla luce delle lampade serali, il tempo che passa e la nostra vita che se ne va per ore, momenti e giorni, senza che ce ne accorgiamo”.
Ed è un discorso, questo, che c’entra sì con l’inutilità che tanto difendiamo, e che, a voler essere ancora più chirurgici, lascia a noi occidentali un discorso che dovrebbe piantarcisi nel cervello tipo granello di polvere che blocca gli ingranaggi: dovremmo re-imparare a lasciar andare le cose.
Henry Thoreau, in qualche modo il precursore dell’ambientalismo, scriveva che “Un uomo è ricco in proporzione al numero di cose delle quali può fare a meno”, che è una di quelle cose che, fuor di francescanesimo (per così dire) dovrebbe fare da bussola costante. Proprio concettualmente, come approccio alle cose.
E, continuando con Celati, “Vorrei che tutto apparisse meno romanzesco possibile, perché non se ne può più di queste vite da romanzo a cui dovrebbe somigliare anche la nostra.”
Questo accartocciarsi cristallino della vita, in verità, Celati lo racconta anche in quel gioiello che è Verso la foce (personalmente, uno dei libri che mi hanno cambiato la prospettiva sul mondo), o nei racconti di Cinema naturale e Narratori delle pianure, sempre con lo sguardo affettuoso di chi racconta l’uomo all’uomo, un meraviglioso “cronismo narrativo”, passatemi la licenza, in cui la Storia, quella con la s maiuscola, fa sempre da sfondo, e tutto le accade attorno.
Celati l’ho scoperto (si sta chiudendo il cerchio, tranquilli) grazie a Vasco Brondi (cui, prima ancora, dovevo la scoperta di Luigi Ghirri, ed è stato, per me, un altro di quegli incontri clamorosamente salvifici). E c’è una circolarità benedetta, nel raccontare del ritorno di Vasco, che ha a che fare esattamente con il lasciar andare.
Perché questo Un segno di vita è, forse, finora, il lavoro in cui più di tutti il cantautore ferrarese applica questa operazione, quantomeno negli arrangiamenti, curati insieme al buon Federico Dragogna (e in un tris di pezzi, rispettivamente, a Pacifico, Angelo Trabace e Riccardo Onori), che, con lo stesso Brondi (ma anche con Federico Nardelli, Matteo Cantaluppi e Taketo Gohara) si è occupato della produzione.
Finisce per venirne fuori un album che prende l’allure dei Talismani per tempi incerti, col lirismo tuonante di Vasco perfettamente controbilanciato da panorami sonori umidi e nebbiosi. Foto lente e analogiche di tempi rabbiosi e caotici, uno “squarcio nel cielo di carta” delle cose. E poi Vasco è cresciuto: si urla molto meno, ci si abbraccia molto di più. E non certo per l’assenza di spiagge deturpate da raccontare, anzi. È una evoluzione notevole, la sua, che lo conferma come uno dei pochi capaci di ridefinire i confini e le ispirazioni di certo cantautorato disco dopo disco.
Album aperto dalle trame nebbiose di “Illumina tutto”, che si intrecciano fra l’arpeggiare del pianoforte e le aperture della sezione archi, con lo strumming acustico della chitarra a segnare il ritornello. Liricamente, poi, mai pezzo fu più programmatico: un bel “Crede in chi viene dal niente/ con i pronostici contro/ e un fuoco dentro” pieno di quella capacità tutta brondiana di tirare cazzotti del genere e lasciarti lì, col calore di avere qualcuno che ti sta raccontando.
A seguire, una titletrack scandita dal tiro dritto della batteria, sotto cui mulinellano le visioni dei synth ed una linea di basso muscolare, squarciata a sua volta dalle incursioni della chitarra elettrica. Parafrasa Ko Un all’inizio: “Questa è una strada che non conosco/ la costruisco” e prende il volo verso palingenesi ipotetiche, “e anche questa pianura/ tornerà a essere un bosco/ un posto sperduto/ dell’universo/ puoi intravedere il futuro/ guardarti attraverso/ meno case e più templi/ più dei che abitanti/ torneranno i canti e i venti forti/ torneranno i fuochi e le stelle accecanti”
“Meccanismi” si srotola lungo le pennate ariose della chitarra acustica, scortata dagli interventi del pianoforte e dai crescendo elettronici nel ritornello, squarciando il testo con uno strappo sanguinante: “Spaventerai sempre tutti con la tua voglia di vivere/ Non riesci a smettere di correre, non riesci a smettere di ridere/ in un piccolo paese ricominci dall’inizio/ O in una città che si vede dallo spazio/ E si vede dallo spazio il tuo sforzo solitario”
Ad impreziosire la splendida “Fuoco dentro” ci pensa la voce leggendaria di Nada, in un pezzo tratteggiato da tempeste di synth, ritmiche ossee, bassi plumbei ed arpeggi acustici a rischiarare. Qui arriva il classico flash poetico e muscolare di cui Brondi è maestro, che inizia con “Sei sola sul pianeta/ sei contenta e perduta/ sei l’unica a piedi in una città sconosciuta/ sei tranquilla sei povera/ la vecchia casa dei tuoi/ se l’è ripresa l’edera/ adesso sei libera adesso sei libera/ segui la strada che nessuno ti indica/ segui la stessa logica/ senza senso/ delle maree e del vento” e finisce col “E sei sopravvissuta perché/ il fuoco dentro te/ bruciava di più/ del fuoco attorno a te” del ritornello.
Giro di boa del lavoro è “Incendio”, in cui lo strumming della chitarra acustica incontra i colori sabbiosi della sezione ritmica, con gli archi a spegnere le tensioni appena accennate della chitarra elettrica, con “Il tuo cuore è una registrazione/ di scene pericolose/ di strade tortuose dirette a mete meravigliose/ montagne scoscese spiagge minuscole erose/ ma dove sei finita la mareggiata della vita/ dove ti ha portata” a fare, fra gli altri, da piccolo saggio di scrittura al fulmicotone.
Anche “Fuori città” gira sulle trame ritmiche della chitarra acustica, elettrizzate dalle visioni acquose e sintetiche delle tastiere e sorrette da una batteria rarefatta, che accoglie altre (e molto lucide) visioni letterarie: “Accecati dalla realtà/ dalle necessità/ da questa breve vita/ fatta di grandi viali/ piccole strade in salita/ tu prendi tutte le direzioni/ e cambiamenti/ cambiamenti/ chiedono i nostri cuori/ cieli accecanti/ giorni migliori/ parole d’amore/ come esplosioni/ coprono il traffico/ le televisioni”
“Vista mare” torna a giocare sul rincorrersi di chitarra e pianoforte, con gli interventi umidi degli archi ad aerografare malinconia. Ci accoglie uno dei testi più intensi dell’album, denso del lasciar andare di cui sopra: “vorrei morire qui tranquillo come un animale/ qui sprecare la mia vita con poco da fare/ in questo posto/ che mi somiglia/ di pirati disadattati/ all’alba camminano sull’acqua/ surfisti/ o santi trasandati/ torno sul porto/ ad ascoltare il vento/ non ha niente da dirmi”.
“Notti luminose” è, probabilmente, uno dei passaggi più interessanti del lavoro, quasi sicuramente quello più dritto, innervosito com’è dai cortocircuiti ostinati della chitarra elettrica, da una metrica serrata e dai controcanti in chiusura, a scandire un tenero “Tu che riaccendi gli occhi spenti/ E rincuori i corridori stanchi/ mi vedi costruire labirinti/ da lì ogni tanto sento che canti”.
Il crescendo denso di “Va’ dove ti esplode il cuore”, sgranato dai fraseggi del pianoforte e dalla ritmica della chitarra acustica, si apre fra nevrosi elettroniche ed acidità elettriche, in perfetta simbiosi con uno dei testi più belli e dolorosi del breviario di Vasco: “Ci siamo incontrati/ dove la strada ricomincia/ ci siamo capiti/ sarà che siamo cresciuti/ nella stessa provincia/ meccanica sporca/ santa e sonica/ Negli anni novanta/ quando anche l’aria era distorta/ e c’era sempre da qualche parte una chitarra elettrica/ che ci benediceva diceva/ non importa non importa tifiamo rivolta/ C’era sempre un amplificatore/ qualcuno che gridava in una sala prove/ Va’ dove ti esplode il cuore”.
A chiudere l’album ci pensa una splendida cover di “La stagione buona” (direttamente dal repertorio di una delle gemme nascoste del nostro circuito alternativo, stiamo parlando dei Non Voglio Che Clara), poggiata su uno struggente piano, ammorbidito dalle fantasie camosciate della sezione archi e da una sezione ritmica appena accennata, ad accompagnare verso la coda strumentale. E, giusto per rimanere in tema di letteratura applicata alla canzone, i versi che Fabio De Min inanella qui sono un piccolo miracolo: “Sarà vero che l’amore viene al mattino presto/ Che ti coglie nel sonno e ti svegli/ E tutti gli uomini di prima sono andati e forse muoiono?/ E che c’è un tempo buono anche per ambire ad un tempo migliore/ È quando la stagione buona ti accarezza e/ si lascia intuire/ Ma tu non farmi accontentare mai, ma fammi desiderare/ Dammi il coraggio di sorridere di un sogno, se non si può esaudire”.
In conclusione, è un disco destinato (come Vasco ha sempre fatto) a ri-tracciare confini e immaginari: in tempi grami, è un esercizio di resistenza fondamentale.
Perché se “la strada non c’è, la costruisco mentre procedo”.