"Mi piacciono le scelte radicali, la morte consapevole che si autoimpose Socrate, la scomparsa misteriosa e unica di Majorana (...) o la misantropia celeste in Michelangeli."
(Franco Battiato, Mesopotamia)
Un classico.
Esiste una distanza programmatica tra chi diffonde l’Arte e chi ne fruisce, uno scambio alimentato dalla passione e dal gusto per la Bellezza. Noi, il pubblico, stiamo dall’altra parte della barricata consapevoli dell’irraggiungibilità della fonte da cui emana quello che cerchiamo. Spesso, però, questo risulta estraneo a noi stessi al punto che quando veniamo a contatto con qualcosa di inaspettato, questo ci cambia la vita. A me è successo con i Préludes di Claude Debussy che ascoltai da ragazzo; non appena la puntina scese sul disco e dal solco sul vinile si propagarono nell’aria le prime note di Danseuses de Delphes, fui immediatamente catturato da un’atmosfera proveniente da un’altra epoca. In quel mondo, giaceva come ibernato l’esecutore che osservavo sulla copertina del disco in posa, con lo sguardo ieratico rivolto in un punto non meglio precisato. Ho volutamente usato la parola ibernato perché il freddo, la rigidità descrivono bene la distanza a cui accennavo prima; penso, ad esempio, ad una nota frase di J. D. Salinger messa in bocca a Holden Caulfield quando il tormentato ragazzo afferma che ci sono scrittori con cui si crea un’empatia tale che avresti voglia di telefonargli per chiedere come va. Michelangeli e Salinger, due auto esiliati, seppur con modalità diverse: lo scrittore nel vero senso della parola, mentre il pianista ha cercato per tutta la vita di creare una barriera tra sé e il mondo.
A me piace pensare che entrambi si siano affacciati su un precipizio e abbiano scorto il segreto della consistenza delle cose; a quel punto si sono ritratti per paura che quell’abisso (mi sto ovviamente riferendo alla nota frase di Friedrich Nietzsche) li inghiottisse.
Le danzatrici di Delfi.
Dolore, dolore per il mondo e per sé stessi. Non posso pensare ad altro per provare a trovare una giustificazione a questo atteggiamento apparentemente antiumano. Sì, siamo animali razionali come affermava Aristotele, ma la Ragione (con buona pace di Immanuel Kant) non è tutto. Permane in noi qualcosa d’insondabile, di non riconducibile a schemi razionali; non è possibile pensarlo quando percepisci in pochi suoni il riecheggiare di qualcosa che fa parte di te, del tuo inconscio. Non si tratta di empatia vera e propria, perché di empatia Michelangeli ne suscitava poca. Questo tratto singolare dell’aneddotica sul pianista è, probabilmente anche per chi non ama la musica classica, uno dei suoi più famosi; per quanto mi riguarda, raramente mi interesso alle biografie degli artisti che amo, ma recentemente mi sono imbattuto in un libro che prova ad indagare il dolore che il genio bresciano si portava dentro, Il demone della perfezione. Arturo Benedetti MIchelangeli, l’ultimo dei romantici di Roberto Cotroneo, scritto in occasione dei cent’anni dalla nascita che ricorrono in questo tormentato duemilaventi. Difficilmente m’informo sulla vita dei miei punti di riferimento perché si corre sempre il rischio di rimanere delusi alla scoperta di piccolezze, idiosincrasie e miserie umane che ci costringerebbero a far scendere i nostri eroi dal piedistallo, riportando anch’essi nella banale quotidianità da cui ci si vorrebbe astrarre.
Nel libro ricorre spesso la sigla ABM, quasi una sorta di acrostico, scelta fatta probabilmente per non appesantire la lettura ad ogni menzione del Maestro. Viene da sorridere nel vedere questi tre caratteri accostati ad una persona come Michelangeli (neanche fossero un hashtag) che se ne schernirebbe di sicuro, ma non è questo il punto; piuttosto le sigle che oramai fanno parte della nostra vita codificata esprimono l’abissale distanza tra il nostro mondo e quello di un uomo morto appena venticinque anni fa. L’autore sviluppa un discorso sulla qualità della musica e probabilmente, nei destini che incombono su di noi, era scritto che ABM non avrebbe conosciuto l’epoca di Spotify. Come poteva, un uomo capace di annullare un concerto, la sera stessa, o di non presentarsi sul palco dopo l’intervallo non appena percepiva che l’umidità della sala, non avrebbe garantito né la perfezione, né la qualità del suono che il pianoforte avrebbe dovuto regalare alla platea? Eppure questi gesti gli venivano perdonati (non così le penali che lui pagava, accettando le conseguenze dei suoi gesti) anzi, più lui eccedeva in bizze, in richieste impossibili tipo la pretesa che i dirigenti della Deutsche Grammophon non entrassero in sala d’incisione, più il pubblico lo amava. Perché?
Ci ho pensato a lungo, in questi mesi di lockdown, chiuso in casa nel silenzio della mia città e mi sono risposto: l’eccentricità (per non dire l’indifferenza) dell’artista è consentita perché di fronte al divino (la misantropia celeste a cui allude l’esergo di Franco Battiato) non possiamo chiedere nulla.
Chiunque si sarebbe fermato, avrebbe ascoltato, e si sarebbe chiesto come fosse possibile non solo quel virtuosismo (…) ma proprio nella modalità di quel virtuosismo che era soltanto il suo ed era come uscisse dal soffio di una divinità misteriosa.
(Roberto Cotroneo, Il demone della perfezione. Arturo Benedetti Michelangeli, l’ultimo dei romantici)
La Morte di Socrate.
Non starò a raccontare più di tanto l’aneddotica che riguarda Arturo Benedetti Michelangeli, innanzitutto perché è già famosa senza che io ne scriva ulteriormente e poi perché il modo migliore per ricordare il doppio anniversario (cent’anni dalla nascita e venticinque dalla morte) consiste nel parlare di Musica.
Il rimando alla Filosofia greca è la chiave da cui partire per raccontare quest’uomo, riallacciandosi a quel momento in cui Socrate poco prima di morire chiamò a sé i suoi discepoli, per affidare loro gli ultimi insegnamenti. ABM ha avuto e allo stesso tempo non ha avuto degli allievi e, in questo senso, è un tipico rappresentante dell’arte del Novecento, secolo che non ha avuto scuole nel senso classico della parola, bensì delle figure luminose che hanno fatto scuola a sé, lasciando a noi il compito di recepire i raggi che si irradiano. Tra gli allievi più noti del pianista bresciano basta ricordare due mostri sacri: Martha Argerich e Maurizio Pollini, la pasionaria e il cristallino per usare due termini che esprimono il temperamento che riversano sui tasti.
Nel libro di Cotroneo si accenna ad una testimonianza resa dalla pianista argentina che, invitata a partecipare ai corsi di perfezionamento tenuti dal maestro a Moncalieri, presso la Villa Mary nell’Accademia sostenuta economicamente dalla Fiat, in realtà non lo vide mai.
Le sue lezioni potevano durare da pochi minuti a sterminate ore di prova. Non fu il caso della pianista argentina che, recatasi ad Arezzo per un altro corso di perfezionamento, dopo una ventina di giorni senza che lui si mostrasse, proprio quando stava per andarsene fu chiamata dal Maestro che le chiese di suonare al saggio finale. Saggio a cui, ovviamente, Michelangeli si guardò bene dal presenziare, limitandosi ad un successivo “mi hanno riferito che hai suonato molto bene”. Un altro tratto che lega i due pianisti è il loro aver fatto parte della giuria del Concorso Pianistico Internazionale Fryderyk Chopin (vincere quel concorso era come assurgere a gloria imperitura) e l’averla abbandonata: il primo in segno di protesta contro la non assegnazione del primo premio a Vladimir Ashkenazy, e la seconda, analogamente, contro il secondo posto attribuito a Ivo Pogorelic. La Storia, ovviamente, ha dato ragione ai due maestri e dei vincitori di quelle edizioni si ricorda solo Wikipedia.
Ascendenze.
Il Concorso Chopin fu vinto nel 1960 da un altro futuro allievo di Benedetti Michelangeli, Maurizio Pollini, il quale è legato ad ABM anche da una cabala anagrafica: il 5 gennaio 1920 nasce il pianista bresciano; il 5 gennaio 1931 nasce Alfred Brendel; il 5 gennaio 1942 nasce Pollini. Incredibile pensare alla doppia coincidenza che lega i pianisti (il giorno 5 e gli 11 anni di distanza). Haruki Murakami ha incentrato un intero libro: l'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio su un’esecuzione di Alfred Brendel, con la narrazione che si avviluppa attorno alla prima suite degli Années de pèlerinage; quella che ha come titolo La Suisse. Proprio la Svizzera in cui Benedetti Michelangeli si autoesilierà dopo il pignoramento dei suoi beni (e del suo pianoforte!), a causa delle penali che dovette sostenere per non aver portato a termine l’incisione dei quattordici album concordati con la casa di produzione musicale B.D.M., appositamente fondata per i suoi dischi. E poi Franz Liszt, il più grande virtuoso del pianoforte a cui venne paragonato nientemeno che da Alfred Cortot, membro della giuria che assegnò il primo premio al pianista bresciano nel 1939 che, impressionato dall’esecuzione del primo Concerto per pianoforte e orchestra in mi bemolle maggiore di Franz Listz, fu portato ad affermare: “E nato il nuovo Liszt!”. La Svizzera, dicevo, in cui quest’uomo incolore, fu seppellito alla presenza di poche persone - in primis Martha Argerich e Maurizio Pollini - in una giornata umida e piovosa, quasi che il destino abbia voluto giocare uno scherzetto proprio a lui e alla sua fissa per i valori climatici del tempo atmosferico.
A conferma di quanto scrivevo sopra, dopo aver vinto il Concorso Chopin, Maurizio Pollini fu sommerso di richieste di concerti, che il pianista centellinò scrupolosamente in virtù di un perfezionamento con ABM. Pianisti diversissimi per temperamento e soprattutto per scelta di repertorio, Michelangeli opera in sottrazione, infatti nelle pagine del libro di Cotroneo ricorre spesso il rimpianto per tutto quello che ABM non ha inciso o suonato nei concerti, musiche di cui han potuto godere solo i suoi allievi; Pollini invece nella sua carriera ha spaziato, come tanti, in un vasto repertorio giungendo fino ai pezzi pianistici di Arnold Schönberg e alle Variazioni di Anton Webern (alle soglie della rarefazione del suono). Pollini che riconosce al maestro i suoi insegnamenti sull’esecuzione dei pianissimo, gamma sonora prossima al silenzio, proprio quei pianissimo che fanno parte dei Préludes di Claude Debussy che anch’egli incise (cosa che a mio avviso non avrebbe dovuto fare perché, non c’è bisogno di dirlo, esiste una sola incisione).
Perché i suoi preludi sono come camminare su una lama affilatissima senza ferirsi mai. Con una maestria che toglie di mezzo qualsiasi dubbio sulla sua genialità. O potremmo definirli perfetti.
(Roberto Cotroneo, op.cit.).
La scomparsa di Majorana e il repertorio di MIchelangeli.
Forse potremmo invertire le parole dell’esergo di Battiato e dire: “la morte che si autoimpose Michelangeli”, per provare a descrivere il suo atteggiamento di fondo nei confronti del mondo, per cercare di afferrare l’enigma, ma domandiamoci se è giusto, se ne abbiamo il diritto. Come insegna Orson Welles nel suo capolavoro Quarto Potere, per quanto ci si possa mettere sulle tracce della vita e dei segreti di un uomo, non arriveremo mai a scoprire l’unresolvable heart per dirla alla Shakespeare, vale a dire quel nocciolo duro se non impossibile da scalfire. Restando nel tema del film possiamo individuare un tratto comune tra il Citizen Kane e ABM, un punto di non ritorno risalente all’infanzia, una perdita. Nel caso di Michelangeli, come ricorda il libro di Cotroneo, fu la morte della sorella di otto anni, quando lui ne aveva quattordici, a segnarlo e in questo senso mi piace pensarlo prossimo a Philip K. Dick che fu accompagnato per tutta la vita dal dolore per la morte della sorella gemella a pochi mesi dalla nascita. Penso queste due esistenze, proiettate e rinchiuse in un altro mondo: lo scrittore americano, teso a porre in una dimensione fantascientifica l’ottica di disvelamento del mondo, del costante inganno che la realtà sembra mettere in atto; il pianista, alla ricerca del suono perfetto, anch’egli vittima di una paranoia esistenziale per cui non si è del mondo, ma si è oltre. Ecco allora che giunge perfetto il riferimento a Majorana, in linea con l’interpretazione che ne fece Leonardo Sciascia, vale a dire l’emblema di un uomo probabilmente posto di fronte ad una scoperta più grande di lui, una rivelazione le cui implicazioni potrebbero averlo portato a voler scomparire.
In lotta con questa incommensurabilità mi piace porre anche Benedetti Michelangeli, sempre per restare nel solco nietzscheiano dell’uomo che si sporge su un abisso: cosa si può scorgere da un tale punto di osservazione? Ci viene in aiuto sempre il grande Bardo quando descrive la vita come un’ombra che cammina, “un povero istrione, che si dimena, e va pavoneggiandosi sulla scena del mondo, un’ora sola: e poi, non s’ode più. Favola raccontata da un idiota, tutta piena di strepito e furore che non vuol dir niente” (William Shakespeare, Macbeth).
Non si può certo dire che ABM si pavoneggiasse, né che fosse un istrione come potremmo dire di alcuni pianisti che calcano le scene odierne, ma sicuramente lo interessavano i suoni della vita alla ricerca della perfezione, del suono assoluto, senza che questo lo portasse ad un’esaltazione di sé. Non era questo il pianista bresciano, no. Diversamente non sarebbe successo che si dedicasse all’armonizzazione di alcuni canti alpini del coro della SAT, in una condivisione della passione per la montagna che è il luogo del silenzio, della ricerca di sé e del punto di contatto con Dio. L’unica volta che accettò di tornare in Italia, fu per il concerto a Brescia nel 1980, in onore di Papa Paolo VI e una seconda alla Sala Nervi in Vaticano nel 1987; eccezioni concesse da un uomo di fede, per i papi di cui fu amico. La sua religiosità si accompagnava alla lettura dell’Imitatio Christi, con l’invito a rifuggire dalle vanità del mondo, dalla fama come autocelebrazione, quindi, ben lontano da quell’istrione che si dimena, ma altresì consapevole di un dono, del talento ricevuto. Arturo Benedetti Michelangeli è morto con un Crocifisso in mano e questo aneddoto finale (in tutti i sensi) mi ha mostrato un lato che non conoscevo del Maestro, vale a dire la sua prossimità ai bisognosi al punto da chiedere al suo commercialista di gestire il suo patrimonio in modo che, tolto il necessario per vivere, il resto fosse elargito a chi ne aveva bisogno. Perfino nel testamento fece scrivere che tutti i suoi averi, compresi i diritti, avrebbero dovuto essere devoluti ai poveri; questo aspetto mi ha colpito molto e mi ha rivelato il segno di un uomo schiacciato da una contraddizione: da un lato lo stare su un palco (la scena del mondo shakespeariana), punto di convergenza di migliaia di occhi, avvolto in una dimensione per cui potremmo dire che suonava più per sé stesso che per il pubblico. Un uomo già nella gloria a vent’anni, un esecutore capace di suonare tutto, ma che nel tempo ha rarefatto sempre più il suo repertorio a pochi autori, poche incisioni: Ludwig van Beethoven a tratti, qualcosa di Maurice Ravel, quasi tutto Claude Debussy, una sola Ballata e qualche Mazurka di Fryderyk Chopin, le quattro Ballate di Johannes Brahms, il Carnaval di Robert Schumann e poco altro. Non indossava maschere, però: infatti, dall’altro lato, era un uomo aperto al mondo, in particolare a quella parte di mondo che aveva a che fare con la sofferenza. Dicevo una contraddizione perché è l’unico modo per provare ad arrivare al nocciolo di un appassionato di auto sportive, le Ferrari che dicono guidasse come un pazzo: un folle che nella notte si recava da Bolzano a Trento a tutta velocità perché si era scordato di portare la busta mensile ad una vecchia signora per aiutarla a pagare l’affitto come si era impegnato a fare, un uomo che pagava di suo pugno una costosa operazione ad un allievo dei suoi corsi. Questo bisogno di contatto umano era anche alla radice del suo atteggiamento a dir poco problematico con i direttori d’orchestra, che metteva a dura prova con il suo continuo rapportarsi in modo diretto agli strumentisti, così come del fatto che non volle mai compensi per i suoi corsi di perfezionamento.
Dopo la virtù
C’era qualcosa di meccanico nelle sue ossessioni. Meccanico come i suoi pianoforti che trattava come esseri umani. (Roberto Cotroneo, op.cit.).
Fermatevi un attimo a riconsiderare quanto ho appena scritto, perché forse abbiamo scovato una piccola breccia nell’identificazione di un uomo che oltre la sua ieraticità, il suo rigore e la sua ricerca della perfezione provava un fortissimo bisogno umano di sfogarsi, di schiudere il suo cuore in inverno (rubiamo il titolo ad un bellissimo film che ha come momento centrale il dolente Trio per Pianoforte, Viola e, Violoncello op. 67 in la minore di Maurice Ravel) e di convogliare questo gelo verso un fuoco (in questo caso la velocità di un’auto, una macchina che rasenta la perfezione, guarda caso), quasi a volersi spogliare dei suoi famosi maglioni a collo alto, come in preda al bisogno psicologico di afferrare per non essere afferrato: “io non sono questo, non etichettatemi”. Del resto diceva lui stesso di essere ordinato, ma non metodico. Si capisce allora perché, rispetto alla scelta di alcuni autori moderni a cui affidare il proprio genio interpretativo, autori noti anche a chi non frequenta la musica classica, nei suoi concerti introducesse le sonate di Baldassarre Galuppi, un compositore del Settecento (apprezzato all’epoca per i suoi melodrammi) secolo che lo accomuna ad un altro artista ossessionato dalla perfezione, Stanley Kubrick, un regista che in uno dei suoi film più belli, Barry Lindon, inserisce in modo mirabile il secondo (dolentissimo) movimento del Trio per archi e pianoforte op. 100 D929, in mi bemolle maggiore di Franz Schubert, con quel suo incedere ripetitivo che è la cifra stilistica di molte sue composizioni. E questo mi rimanda al secondo disco che resta per me un punto di riferimento sonoro giovanile, vale a dire l’incisione della Sonata per pianoforte n. 4 D537 in la minore, composizione giovanile piena di baldanza che sbatte contro le increspature della vita (come Barry Lindon in tutto il film) e che ogni volta riparte per poi arrivare alla fine, dove con un lieve tono musicale in più, Schubert apre ad uno spiraglio e il cielo si fa meno pesante. Push the sky away, per dirla alla Nick Cave.
Il cielo, dunque: mi piace incanalare il viaggio di ABM verso il suono delle sfere celesti, un viaggio spaziale in compagnia di Philip K. Dick per sfuggire al dolore del mondo, un viaggio al confine estremo della Galassia per poi ritrovarsi catapultati in una stanza kubrickiana arredata in perfetto stile settecentesco (sto ovviamente alludendo al finale di 2001: Odissea nello spazio) dove immagino Benedetti Michelangeli, di spalle, seduto al pianoforte che, accorgendosi della nostra presenza, si volta un poco e, sorridendo sornione, si scusa dicendo: stavo solo improvvisando.
Le luci fanno ricordare le meccaniche celesti
(Franco Battiato, Segnali di vita)
12 giugno 1995.
Les sons et les parfums tournent dans l'air du soir (titolo di un preludio di Claude Debussy ispirato dai Fleurs du Mal di Charles Baudelaire)[1]
La sera del giorno in cui Arturo Benedetti Michelangeli lasciò il mondo, tornai a Milano (dove ho vissuto da studente) perché il giorno dopo avrei dovuto sostenere un esame ostico che non ero ancora riuscito a passare. Ricordo che entrai nell’appartamento che fuori era già buio e mantenni quest’atmosfera anche in interni. L’amico di salingeriana memoria a cui ti viene voglia di telefonare non c’era più, se n’era andato. “Non piangevo lui, ma la mia sorte, rimanere senza un amico così” (Platone, Fedone dialogo dove si narra della morte di Socrate).
Fu il momento in cui mi avvolse, diversamente dalle parole di Critone alla morte del maestro greco, una grande serenità, al punto quasi da non avvertire più nulla: ero consapevole che il giorno dopo avrei passato l’esame, come del resto avvenne. Camminando nei chiostri dell’Università dopo l’esame, guardai il cielo e pensai a Glenn Gould o, meglio, a un film incentrato sul leggendario pianista canadese (32 piccoli film su Glenn Gould di François Girard). Nell’episodio ambientato ad Amburgo, si vede l’attore che interpreta Gould in una stanza d’albergo mentre invita la cameriera che sta sistemando la stanza ad ascoltare con lui un pezzo di Ludwig Van Beethoven; la donna al termine del brano lo ringrazia commossa. Fuori c’è la nebbia, è una giornata umida, di quelle che di certo non sarebbero risultate gradite a Michelangeli.
Amburgo, come la città dell’ultimo concerto del Maestro bresciano (1993, lo stesso anno del film) dove, probabilmente colto da improvvisa consapevolezza della fine, si sbloccò uscendo dal guscio dell’ibernazione in cui aveva provato a nascondersi per tutta la vita, regalando al pubblico un’uscita di scena con un gesto tipicamente alla Glenn Gould: si mise a cantare mentre suonava.
“È la totalità, pensai. Un’eco tanto vicina alla perfezione da non poter dire quale sia la prima voce e quale il ritorno della voce-fantasma. Per un momento tutto mi fu chiaro, e nei momenti in cui accade, vedi quant’è sottile il mondo. Non lo sappiamo tutti quanti, in cuor nostro? È un meccanismo perfetto e bilanciato di voci ed echi che fanno da rotelle e leve, onirico orologio che rintocca oltre il vetro degli arcani che chiamiamo vita” (Stephen King, 22/11/63).
Grazie Maestro.
(Editing di Ornella Genua)
[1] Chiudo questo pezzo con un accenno e un affettuoso pensiero a Franco Battiato che ho preso come nume tutelare di questo scritto. Il compositore siciliano ha davvero colto in poche parole l’essenza di Arturo Benedetti Michelangeli. L’accenno, dunque, va al bellissimo album di cover dall’emblematico titolo Fleurs che chiude proprio con l’Invitation au Voyage del poeta francese, con quei versi che parlano di “ascoltare i suoni dei giardini e il linguaggio dei profumi dei fiori”.