Era una domanda che mi facevo già quando uscì il primo disco de I Cani e oggi, a dieci anni di distanza, credo sia giusto porsela di nuovo: cosa rimarrà in futuro di tutte quelle canzoni che hanno sbalestrato la musica italiana, cambiando per sempre la geografia del mercato e facendo sconfinare la definizione di Indie sempre più pericolosamente vicino al Pop? Dovranno essere create delle note a piè di pagina per comprendere i testi, esattamente come oggi si fa con la Divina Commedia, il teatro di Aristofane e in generale con tutte quelle opere che contengono riferimenti specifici ad una contemporaneità che per noi è andata irrimediabilmente perduta?
Ascoltando oggi “Hipsteria”, “Le velleità” o “I pariolini di 18 anni” si potrebbe parzialmente rispondere di sì: sono canzoni invecchiate bene, che hanno in qualche modo plasmato un suono e segnato il passo per quello che sarebbe venuto. I testi però raccontano un mondo che in gran parte non esiste più, una realtà già profondamente mutata e questo accade quando si tende ad essere troppo ammiccanti nei propri riferimenti, troppo adesivamente attaccati ad una dimensione presente che oggi, in tempi di esagerata accelerazione socio culturale, tende a durare lo spazio di qualche anno, se non di meno.
Il rischio, credo, è che in un futuro non troppo lontano ci troveremo a guardare tutti questi dischi, prodotti da band che difficilmente potranno essere ancora in attività, come frutto di un'epoca in cui si faceva a gara a trovare il riferimento e la citazione più cool e più adatta ad innescare un gioco di riconoscimenti inevitabilmente destinato ad avvolgersi su se stesso.
La cifra di questo secondo disco dei Legno è esattamente questa. “Un altro album” (titolo quanto meno prosaico, che dice di una volontà di scrivere canzoni, senza preoccuparsi troppo di dove arriveranno) si muove lungo due direttrici principali: da una parte l’inseguimento di un eterno presente, dall'altra la nostalgia retromaniaca affondata essenzialmente negli anni ‘90 (naturale, data la probabile età anagrafica del duo) ma con qualche sporadico richiamo ai decenni precedenti.
È una formula che abbiamo già visto più volte, che non ci stupisce più e che probabilmente non ha davvero più nulla da insegnarci. E che, lasciatemelo dire, getta più di un interrogativo su questa strana epoca che stiamo vivendo: siamo poi così sicuri di non avere nulla da offrire al di fuori di un ricordo romantico del passato? E, soprattutto, siamo sicuri che questo passato fosse poi così autenticamente romantico? Possiamo escludere con certezza che “i goal di Weah” e “i capelli di Rodman”, per citare un testo specifico, siano considerati elementi inarrivabili solo perché ai tempi chi c’era era in un’età dove per forza di cose si idealizza, si trasfigura, si sogna? È il solito dilemma: l’età dell'oro è esistita veramente o è semplicemente un luogo nella mente di chi in fondo in fondo sa che quel che ha vissuto da ragazzino è stato il meglio che la vita gli riserverà mai?
E ancora: va benissimo il presente, alla fin fine è l’unica cosa che conta ma siamo poi così sicuri che fare a gara a citare l’ennesima serie tv del momento, sia veicolo efficace per portare avanti un discorso culturale che possa reggere nel tempo?
Le canzoni dei Legno si muovono così, tra un riferimento fin troppo scontato a “La casa di carta” ed uno telefonatissimo a Pornhub (sarebbe anche interessante capire bene cosa ci sia dietro tutto questo sdoganamento mainstream del porno, quando la mia generazione era costretta ad alzarsi di notte a vedere certi programmi o a sperare di trovare certi giornaletti abbandonati nei campi), che dopo che Calcutta ha citato Youporn cinque anni fa ogni altra operazione del genere appare ben poco spontanea.
E poi certi versi come “Bologna è perfetta, ti cerco dentro una canzone di Dalla” sono talmente banali che sembrano uscite da una di quelle parodie di YouTube su “Come scrivere una canzone Indie in dieci minuti”.
Davvero, ma siamo diventati questo? La cosiddetta Generazione Z si è proprio definitivamente condannata a vivere un eterno presente, schiacciata nella frammentarietà dell'istante, senza mai tentare di imbastire una visione globale e coerente della propria storia? Cosa rimarrà di tutto questo? Solo un elenco infinito di serie, nomi e prodotti di cui ci saremo già dimenticati da un pezzo?
Forse non è questa la sede adatta per rispondere. Qui dobbiamo parlare del sophomore di una band che fa parte di una seconda ondata, che arriva in un momento in cui probabilmente tutto è già stato detto nella galassia It Pop ma ciononostante non rinuncia ad esprimere la propria visione delle cose, a comunicare il proprio vissuto.
“Un altro album” esce accompagnato da un fumetto realizzato da Niccolò Storai e Francesca Del Sala, che mette su carta la loro passione per i supereroi della Marvel e per personaggi come Diabolik, unendola ad un giocare con la propria immagine che loro stessi fanno da inizio carriera, coprendosi la faccia con una scatola gialla che, guarda caso, è simile a quanto fatto da Niccolò Contessa e compari agli esordi, e nascondendo del tutto la loro vera identità. Dovrebbero essere toscani (uno dei due ha dichiarato di tifare Empoli), hanno frequentato parecchio Bologna e nella loro musica c’è più di un richiamo alla scena romana; al di là di questo, nulla è dato sapere e non è poi così necessario, sono le canzoni a parlare per loro.
Abbiamo già delineato in apertura quali sono i principali problemi che affliggono la scrittura del duo. Musicalmente le cose non sono poi molto diverse: il loro è un Pop molto Indie e molto It, con tantissimi richiami a Gazzelle (più che evidente nell'opener “Affogare”, mentre “Delia” e “Sto in fissa” sembrano proprio delle outtake di “Punk”) e incentrato a grandi linee sul modello ballata (“In (gin) di vita”, nonostante l'orrendo gioco di parole del titolo, è un buon pezzo e anche “I goal di Weah” è ben scritta, nonostante, come già detto, una dose eccessiva di sentimentalismo nostalgico) anche se quando ci danno dentro con la cassa dritta e sfoderano sonorità tamarre, i risultati sono migliori: “Hollywood” e “Instagrammare”, con l’aiuto anche di due featuring d'eccezione (Wrongonyou nella prima, rovere nella seconda’), sono due brani accattivanti, che giocano la carta del tormentone estivo e al netto di un'eccessiva somiglianza con la scrittura dell'ultimo Tommaso Paradiso, funzionano bene e servono allo scopo. Discorso simile per “Fottutamente bellissima”, che gioca con ritmi elettronici, ha un ritornello molto anthemico e una certa atmosfera da decadenza estiva tipica dei Righeira.
“E a noi chi ci salverà? Sarà Babbo Natale, tuo padre o un supereroe della Marvel?” cantano nell'ultimo brano, “La canzone di Natale”, dando così voce alla questione forse più importante: se è vero che l'epoca contemporanea cerca sicurezza nel passato per sfuggire ad un presente che non soddisfa e si appiattisce sull'istante per l’incapacità o per la paura di immaginare e dare forma al futuro, è anche vero che la domanda sulla salvezza, su una vita che abbia senso, non può essere elusa e che ritornerà sempre, anche in una canzonetta It Pop di seconda mano. Che poi, saranno pure canzonette, saranno pure già sentite, saranno piene di luoghi comuni fino a scoppiare, ma in realtà “Un altro album” ha in sé un fascino inspiegabile, una piacevolezza tutta frivola ma altamente contagiosa, che fa sì che si faccia fatica a liquidarlo dopo pochi ascolti.
Non hanno salvato la musica, come raccontano ironicamente nel fumetto, ma ci hanno regalato quaranta minuti piacevoli e senza impegno. Se a voi sembra poco, per me non lo è.