D’accordo: è estate, tempo di leggerezza e disimpegno, e stiamo sotto l’ombrellone come d’autunno sugli alberi le foglie, cervello in modalità “se mi alzo da qui è solo per farmi una birretta” e il fisico in balia del nostro tanto agognato e meritato relax. E d’accordo: non è detto che tutti i dischi che ascoltiamo debbano essere capolavori, perché a volte un disco pop ben confezionato può riservarci delle sorprese inaspettate. Ammetto anche che se questo secondo disco dei londinesi Oh Wonder fosse capitato in mani diverse, forse ne sarebbe uscito più dignitosamente. Tuttavia, se ha un senso scrivere recensioni per indirizzare il lettore e l’ascoltatore nella scelta, evitandogli spreco di soldi e di tempo, ogni tanto è necessaria una salutare bastonata, perché, come si dice in gergo, quando “ce vò, ce vò”. Allora, è inutile girarci intorno: Ultralife è il classico cd che io userei a tavola come sottobicchiere o, nel migliore dei casi, lo porterei in spiaggia per far giocare a frisbee il mio cane. Il genere viene identificato solitamente come alt pop, etichetta corretta solo se la si intende per quello che diresti a qualcuno quando sta per mettere sul piatto questo disco: fermo là! Sono dodici le canzoni in scaletta e ascoltarle tutte (due volte, giuro che le ho ascoltate due volte) mi ha indotto un preoccupante rigonfiamento degli zebedei (cosa che, peraltro, succederebbe a chiunque abbia superato da un po’ gli anni dell’adolescenza). La banalità, infatti, impera sovrana, e tutto suona frusto e ammorbante come la colonna sonora di una puntata di Grey’s Antomy. Mettici, poi, degli arrangiamenti inutilmente pomposi, con tastieroni di plastica che fanno molto anni’80 e la voce di Josephine Vander Gucht, simile a quella di un bimbo un filo incazzato perché non gli hanno comprato le caramelle, e il gioco è fatto. Ecco, Ultralife è una di quelle musiche che potreste ascoltare nella sala d’attesa di un centro massaggi, in qualche locale fighetto di Milano mentre siete in fila al bancone dell’apericena o, al massimo, mentre spingete il carrello fra gli scaffali del reparto surgelati dell’Esselunga vicina a casa. Che poi il disco venderà molto bene e la title track, almeno in terra d’Albione, sarà uno dei tormentoni dell’estate, non ci sono dubbi. Per quanto mi riguarda, dopo averlo ascoltato (due volte, giuro che l’ho ascoltato due volte) ho dovuto compensare con una terapia intensiva a base di Slayer e di Anthrax. E ancora non so se sono uscito dal tunnel.